di Jonathan Cook

La polarizzazione nelle società occidentali su temi relativi alle migrazioni e ai diritti umani è andata intensificandosi nelle settimane e mesi recenti. A molti osservatori pare sospettosamente che un ordine internazionale in vigore dalla fine della seconda guerra mondiale – un ordine che sottolineava diritti universali come modo per impedire disumanizzazioni e conflitti – si stia rapidamente disfacendo in Europa e negli Stati Uniti.

Nelle ultime poche settimane negli Stati Uniti di Donald Trump è emerso che migliaia di bambini migranti sono stati strappati ai loro genitori mentre tentavano di entrare attraverso il confine meridionale, con alcuni rinchiusi in gabbie; la Corte Suprema statunitense ha confermato il diritto dei funzionari di confine di negare l’ingresso a mussulmani provenienti da paesi messi al bando e l’amministrazione Trump ha lasciato il Comitato Diritti Umani delle Nazioni Unite, un’istituzione chiave per controllare le violazioni dei diritti umani.

Contemporaneamente partiti di estrema destra in tutta Europa hanno conquistato successi elettorali cavalcando paure montanti di un’ondata di migranti sfollati dall’Africa del Nord e dal Medio Oriente da guerre e carestie. Aderendo alle caustiche posizioni contro l’immigrazione dei governi di Ungheria e Polonia, il ministro dell’interno italiano Matteo Salvini ha respinto imbarcazioni di migranti dai porti del suo paese. Ha sollecitato nel mese scorso l’Unione Europea a “difendere i suoi confini” e a negare accesso a gruppi per i diritti umani, minacciando anche al tempo stesso di tagliare il contributo del proprio paese all’Europa a meno che siano intraprese azioni contro i migranti. Salvini e tra i politici italiani che chiedono l’espulsione della minoranza Rom.

E a gettare un’ombra lunga sugli eventi ci sono i tentativi della Gran Bretagna di negoziare la propria uscita dalla UE, un colpo che alla fine potrebbe condurre al crollo dell’intero edificio del progetto europeo.

 

Due idee di cittadinanza

Questi non sono eventi casuali. Fanno parte di una tendenza in accelerazione che segnala come un ordine internazionale costruito negli ultimi settant’anni e rappresentato da istituzioni pan-nazionali come le Nazioni Unite e la UE si stia gradualmente disintegrando.

Anche se l’evidenza suggerisce che non ci sia al momento alcuna particolare crisi migratoria, ci sono fattori di lungo termine che provocano facilmente paure populiste e possono essere agevolmente sfruttati, specialmente in presenza dell’esaurimento di risorse globali chiave, quali il petrolio, e cambiamenti ambientali causati dalla crisi climatica. Insieme, hanno aizzato conflitti per le risorse e hanno cominciato a contrarre economie mondiali. Gli effetti sono violente reazioni politiche e ideologiche che hanno posto sotto una tensione senza precedenti accordi e norme internazionali di lungo corso.

La lotta emergente che abbiamo di fronte oggi è una lotta che è stata combattuta un secolo fa nell’Europa occidentale e si collega a concezioni differenti della cittadinanza. Agli inizi del ventesimo secolo l’Europa era spaccata da nazionalismi etnici: ciascuno stato era ritenuto rappresentare un popolo biologico separato o, nella terminologia del tempo, una razza o Volk. E ciascuno riteneva di aver bisogno di un territorio nel quale esprimere la sua distinta eredità, identità, lingua e cultura. Nello spazio di pochi decenni tali nazionalismi antagonistici fecero a pezzi l’Europa in due “guerre mondiali”.

Al tempo, il nazionalismo etnico era posto in conflitto con una visione alternativa della cittadinanza: il nazionalismo civico. Val la pena di delineare brevemente in che cosa i due differivano.

I nazionalisti civici attingono a idee liberali di lungo corso che danno priorità a un’identità politica condivisa basata sulla cittadinanza all’interno della stabile unità territoriale di uno stato democratico. Lo stato dovrebbe aspirare – almeno in teoria – a essere neutrale nei confronti delle minoranze etniche e delle loro lingue e culture.

Il nazionalismo civico si base su diritti individuali, uguaglianza sociale e tolleranza. Il suo lato negativo è una tendenza intrinseca ad atomizzare le società in individui e a coltivare i consumi rispetto ad altri valori sociali. Ciò ha reso più facile a imprese potenti impossessarsi del sistema politico, determinando l’emergere delle economie capitaliste neoliberiste.

 

Le minoranze come capro espiatorio

I nazionalisti etnici, per contro, credono in popoli distinti, con eredità e stirpe condivise. Tali nazionalisti non solo si oppongono all’idea che altri gruppi possano integrarsi o assimilarsi, ma temono che possano indebolire o dissolvere i legami che tengono insieme la nazione.

I nazionalisti etnici, perciò, accentuano una volontà collettiva immaginaria appartenente al gruppo etnico dominante che guida il suo destino; enfatizzano minacce di nemici esterni e sovversioni dall’interno ad opera di chi si oppone ai valori del gruppo centrale; incoraggiano la militarizzazione della società per far fronte a tali minacce e fanno nervosamente la guardia al territorio esistente e cercano aggressivamente di ampliare i confini per aumentare la resilienza della nazione.

Ancor prima delle due grandi guerre dell’Europa, la maggior parte degli stati occidentali era un ibrido di impulsi nazionalisti civici ed etnici. Ma in un clima politico di competizione per le risorse e di vigilanza paranoica contro i rivali prevalente prima della seconda guerra mondiale, tesero a dominare idee associate al nazionalismo etnico, specialmente paure tra le élite occidentali riguardo a come meglio contrastare la crescente minaccia del comunismo sovietico.

Fu per questa ragione che le minoranze etniche – specialmente quelle, come gli ebrei e i rom le cui lealtà nei confronti della nazione centrale erano sospette – si trovarono rese capro espiatorio e a subire una discriminazione rampante. Ciò assunse forme diverse.

In Gran Bretagna il nazionalismo etnico contribuì alla Dichiarazione Balfour del 1917, un documento che proponeva che gli ebrei britannici fossero trapiantati in Medio Oriente. In parte si trattò di un progetto coloniale per creare un avamposto di ebrei in Medio Oriente dipendenti dal favore britannico per la loro sicurezza. Ma come segnalato da Edwin Montagu, il solo ebreo nel governo britannico a quel tempo, la Dichiarazione Balfour aveva implicazioni antisemite, rafforzando l’idea che gli ebrei non erano al posto loro e dovevano essere trasferiti altrove.

Il nazionalismo etnico in Francia fu evidenziato dal famoso Affare Dreyfus. Un capitano ebreo dell’esercito francese, Alfred Dreyfus, fu condannato per tradimento nel 1894 per aver passato segreti militari alla Germania. In realtà, come emerso successivamente, un altro ufficiale francese era responsabile della spiata, ma l’esercito preferì falsificare documenti per garantire che la colpa restasse di Dreyfus.

E in Germania il razzismo nei confronti di minoranze come gli ebrei e i rom culminò nei campi di concentramento nazisti degli anni ’30 e poco più tardi in una politica di sterminio di massa che reclamò le vite di molti milioni.

 

Ricostruzione di un’Europa postbellica

Dopo la devastazione della seconda guerra mondiale l’Europa occidentale dovette essere ricostruita, sia fisicamente sia ideologicamente. Con i pericoli del nazionalismo etnico a quel punto evidenti, un’enfasi maggiore fu posta sul nazionalismo civico.

Tale tendenza fu incoraggiata dagli USA attraverso il Piano Marshall, un programma di ripresa economica per ricostruire l’Europa occidentale. Gli USA volevano un’Europa unita, pacifica – i suoi antagonismi etnici una cosa del passato – in modo che potesse essere promossa la cultura dell’individualismo e del consumismo, garantendo un mercato di esportazione per le merci statunitensi. Su un’Europa dipendente dagli USA si poteva anche far conto come baluardo contro il principale rivale ideologico di Washington, il comunismo sovietico.

Arrivati alla fine del ventesimo secolo, questi sviluppi avrebbero condotto all’emergere di un mercato comune, in seguito l’Unione Europea, una moneta unica e l’abbandono dei controlli alle frontiere.

Al tempo stesso, nell’immediato periodo postbellico, fu deciso di mettere in atto salvaguardie contro il recente massacro. I processi di Norimberga contribuirono a definire le regole della guerra e classificarono le loro violazioni come crimini di guerra, mentre la Dichiarazione dei Diritti Umani dell’ONU nel 1948 e le Convenzioni di Ginevra avviarono il processo di formalizzazione della legge internazionale e del concetto di diritti umani universali.

Tutto tale ordine postbellico si sta ora disfacendo.

 

Contro la tendenza

Israele fu fondato nel 1948, l’anno della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, che era essa stessa intesa a prevenire qualsiasi ritorno agli orrori dell’Olocausto. Israele fu presentato come un rifugio per gli ebrei della depravata Europa che era stata invasa da ideologie razziali aggressive. E Israele celebrata come “luce delle nazioni”, il frutto politico di un nuovo ordine legale internazionale per promuovere i diritti delle minoranze.

Ma paradossalmente lo stato “occidentale” che più visibilmente contrastò la tendenza al nazionalismo civico nel periodo postbellico fu Israele. Si attenne rigidamente a un modello politico di nazionalismo etnico che era stato screditato in Europa. Oggi Israele incarna un’alternativa politica al nazionalismo civico, un’alternativa che sta lentamente e progressivamente contribuendo a riabilitare il nazionalismo etnico.

Fin dall’inizio Israele non fu quello che appariva alla maggior parte degli estranei. Era stato patrocinato come un progetto di colonia d’insediamento da sostenitori occidentale che variamente includevano Gran Bretagna, Unione Sovietica, Francia e, negli ultimi tempi, gli USA. Creato per essere esplicitamente un “stato ebraico”, fu costruito sulle rovine della patria del popolo palestinese nativo dopo una campagna di espulsioni che gli storici hanno definito “pulizia etnica”.

Israele non era la democrazia liberale dichiarata nelle sue campagne propagandistiche, note come hasbara. In realtà, lungi dall’essere un antidoto al nazionalismo etnico, Israele era decisamente un prodotto – o più specificamente un rispecchiamento – di tale forma di nazionalismo.

 

L’ideologia tribale di Israele

La sua ideologia fondante, il sionismo, era profondamente contraria al nazionalismo civico e alle idee relative di un’identità politica comune. Piuttosto, era un’ideologia tribale – basata su legami di sangue ed eredità religiosa – che parlava la stessa lingua del precedente nazionalismo etnico dell’Europa. Concordava con i razzisti dell’Europa che “gli ebrei” non potevano essere assimilati o integrati poiché erano un popolo a parte.

Fu questo terreno condiviso con i nazionalisti etnici che rese il movimento sionista profondamente impopolare tra la vasta maggioranza degli ebrei europei fino all’ascesa di Hitler negli anni ’30. Dopo gli orrori dei nazisti, tuttavia, un numero crescente di ebrei concluse che se non si poteva battere i nazionalisti etnici, era meglio unirsi a loro. Un Israele fortemente militarizzato, dotato di armi nucleari – patrocinato dall’Europa e bellicoso nei confronti dei suoi nuovi, relativamente deboli, vicini arabi – appariva la miglior soluzione disponibile.

E’ tale terreno condiviso che oggi rende Israele un alleato e amico di Trump e del suo elettorato politico negli USA e dei partiti di estrema destra in Europa.

Infatti, Israele è ben visto da una nuova razza di suprematisti bianchi e antisemiti negli USA nota come la destra alternativa. Il suo leader, Richard Spencer, si è autodefinito un “sionista bianco”, affermando che vuole che gli USA divengano una “patria sicura” per impedire “l’espropriazione demografica dei bianchi negli Stati Uniti e nel mondo” allo stesso modo ottenuto da Israele.

 

Il razzismo reso rispettabile

Israele ha preservato il modello del nazionalismo etnico e sta ora cercando di contribuire a renderlo di nuovo rispettabile presso segmenti dell’opinione pubblica occidentale.

Proprio come storicamente ci sono state diverse varietà di nazionalismi etnici in Europa, lo stesso avviene tra i movimenti popolari e politici in Israele.

All’estremo più inquietante dello spettro ci sono i coloni religiosi che hanno attivamente assunto il compito di sradicare nuovamente la popolazione palestinese nativa, questa volta nei territori occupati. Tali coloni oggi dominano i ranghi medi dell’esercito israeliano.

In un manuale per ulteriori espropriazioni noto come la Torah del Re influenti coloni rabbini hanno giustificato l’uccisione preventiva di palestinesi come terroristi e dei loro bambini come “terroristi futuri”. Questa visione del mondo spiega perché il mese scorso coloni si sono ammassati all’esterno di un tribunale in Israele schernendo un palestinese, Hussein Dawabshe, il cui nipote di 18 mesi, Ali, era stato tra i membri della famiglia bruciati vivi da coloni nel 2015. Quando il nonno è arrivato i coloni l’hanno sbeffeggiato: “Dov’è Ali? Ali è morto” e “Ali è sulla griglia”.

Ancor più comune, tanto da passare quasi inosservato in Israele, è il razzismo strutturale che mantiene il quinto della popolazione appartenente alla minoranza palestinese separato dalla maggioranza ebrea. Per decenni, ad esempio, gli ospedali israeliani hanno separato in base alla loro etnia le donne nei reparti maternità. Il mese scorso, in uno schema familiare, è stato rivelato che una piscina comunale nel Negev ha segregato tacitamente bagnanti ebrei e palestinesi – tutti cittadini dello stesso stato – offrendo orari differenti.

Almeno la piscina ha accettato cittadini palestinesi. Quasi tutte le comunità in Israele sono segregate, con molte centinaia che usano comitati di ammissione per assicurarsi di vietare cittadini palestinesi e restare esclusivamente ebree.

Ci sono state settimane di rabbiose proteste tra i residenti ebrei della città settentrionale di Afula dopo che la prima famiglia palestinese è riuscita ad acquistare una casa in un quartiere. Il vicesindaco Shlomo Malihi ha osservato: “Spero che la vendita della casa sia cancellata in modo che questa città non cominci a essere mista”.

 

Il ‘pericolo’ dei matrimoni misti

Nel mese scorso Miki Zohar, un parlamentare del partito governativo Likud, ha osservato non solo che esiste una “razza ebraica” ma che essa rappresenta “il più elevato capitale umano, il più intelligente, quello che capisce di più”.

Al tempo stesso il ministro governativo dell’istruzione, Naftali Bennett, ha notato che il futuro del popolo ebreo in paesi come gli Stati Uniti lo ha tenuto sveglio la notte. “Se non agiamo urgentemente perderemo milioni di ebrei a causa dell’assimilazione”, ha dichiarato in una conferenza a Gerusalemme.

Questo è un ritornello comune anche nella sinistra israeliana. Isaac Herzog, l’ex leader del partito laburista, presunto socialista, e nuovo presidente dell’Agenzia Ebraica, condivide l’impulso tribale di Bennett. Nel mese scorso ha avvertito che ebrei fuori da Israele stavano cadendo vittime di “un flagello” di matrimoni misti con non ebrei. Ha lamentato che in una visita negli USA l’anno scorso: “Ho visto i figli di miei amici sposarsi o convivere con partner non ebrei”. Ha concluso: “Dobbiamo spaccarci la testa sul modo di risolvere questa grande sfida”.

 

Una fortezza etnica

Ma il problema non è limitato ai pregiudizi di individui e comunità. Ha l’approvazione dello stato, proprio come in Europa un secolo fa.

Ciò si può vedere non solo nel rampante razzismo istituzionale in Israele – circa 70 leggi che discriminano esplicitamente in base all’appartenenza etnica – ma anche nell’ossessione di Israele per la costruzione di muri. Ci sono muri che sigillano Gaza e le parti densamente popolate da palestinesi di Gerusalemme Est e della West Bank occupate.

In un’altra indicazione di mentalità da fortezza etnica, Israele ha costruito un muro per bloccare l’ingresso di richiedenti asilo africani in fuga da guerre attraverso la penisola del Sinai. Israele ha ri-deportato tali profughi in Africa – una violazione delle convenzioni internazionali che ha ratificato – mettendo in pericolo le loro vite.  E mentre liberali occidentali sono finiti addestrati alla separazione di bambini dai loro genitori da parte dell’amministrazione Trump, hanno ignorato decenni di politiche israeliane analogamente brutali. All’epoca migliaia di bambini palestinesi sono stati sequestrati dalle loro case, spesso in irruzioni notturne, e incarcerati in processi con un tasso di condanne quasi del cento per cento.

 

Violenza extragiudiziale

Per tutta la sua storia Israele ha glorificato la sua prestanza militare e ha spavaldamente celebrato una tradizione di violenza extragiudiziale contro gli avversari. Ciò ha incluso pratiche quali le torture e gli assassinii politici che la legge internazionale cerca di vietare. I sofismi usati da Israele per difendere tali azioni sono stati fatti entusiasticamente propri da Washington, in particolare quando gli USA hanno avviato i propri programmi di torture e di assassinii extragiudiziali dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003.

Israele ha razionalizzazioni e frasi ad effetto speciose preconfezionate che hanno reso molto più facile spacciare ai pubblici occidentali lo smantellamento di norme internazionali.

Il sovvertimento della legge internazionale – e, con esso, un’inversione della tendenza al nazionalismo civico – si è intensificato con i ripetuti attacchi israeliani contro Gaza nello scorso decennio. Israele ha sovvertito i principi chiave della legge internazionale – proporzionalità, distinzione e necessità – ampliando enormemente la cerchia dei potenziali obiettivi di interventi militari a includere strati di civili e usando una forza massiccia oltre qualsiasi possibile giustificazione.

Ciò è stato di recente illustrato esplicitamente dalle sue menomazioni e uccisioni di migliaia di dimostranti palestinesi disarmati perché apparentemente troppo prossimi alla barriera perimetrale costruita da Israele per ingabbiare Gaza. Tale barriera delimita semplicemente la terra palestinese occupata da Israele. Ma in un altro successo dell’hasbara israeliana, il giornalismo occidentale ha quasi universalmente suggerito che la barriera è un confine che Israele ha titolo a difendere.

 

Competenza israeliana cercasi

La competenza di Israele è sempre più richiesta in un occidente nel quale i nazionalismi etnici stanno nuovamente mettendo radici. Le armi di Israele sono state sperimentate sul campo di battaglia contro i palestinesi. I suoi sistemi di sicurezza interna hanno dimostrato che può sorvegliare e controllare la popolazione palestinese, proprio come le élite occidentali pensano di fare a proposito della loro protezione all’interno di comunità recintate.

La polizia paramilitare di Israele addestra e militarizza forze di polizia occidentali a reprimere il dissenso interno. Israele ha sviluppato, nei suoi sforzi di restare una superpotenza regionale, sofisticate tecniche di guerra informatica che oggi soddisfano l’atmosfera politicamente paranoide dell’occidente.

Con una persistente avversione per l’ideologia comunista dei loro ex sovrani sovietici, stati dell’Europa centrale e orientale si sono messi alla testa di un rinnovamento del nazionalismo etnico. Il nazionalismo civico, per contro, è considerato esporre pericolosamente la nazione a influenze esterne.

Il primo ministro ungherese Viktor Orban fa parte del nuovo marchio di leader europeo orientale che aizza spudoratamente una politica etnica in patria mediante l’antisemitismo. Ha attaccato il miliardario e filantropo ebreo ungherese George Soros per aver promosso un nazionalismo civico, suggerendo che Soros rappresenta una più vasta minaccia ebraica all’Ungheria. In forza di una recente legge, popolarmente nota come “STOP Soros”, chiunque aiuti migranti e entrare in Ungheria rischia una condanna al carcere. Orban ha elogiato Miklos Horthy, un leader ungherese di un tempo che fu uno stretto alleato di Hitler.

Ciò nonostante Orban è onorato da Benjamin Netanyahu allo stesso modo in cui il primo ministro israeliano si è strettamente identificato con Trump. Netanyahu ha telefonato per congratularsi con Orban poco dopo la sua rielezione in aprile e lo accoglierà in una visita di stato questo mese. Alla fine Netanyahu sta cercando di ospitare il prossimo incontro del gruppo di Visegrad, quattro paesi dell’Europa centrale nella stretta di politiche etniche di estrema destra con i quali Israele desidera sviluppare rapporti più stretti.

Per leader come Orban, Israele ha aperto la via. Ha mostrato che la politica etnica dopotutto non è screditata, che può funzionare. Per i nuovi nazionalisti etnici europei e statunitensi Israele ha dimostrato che certi popoli sono destinati alla grandezza, se è consentito loro di trionfare su quelli che sono loro d’ostacolo.

Sarà un mondo più buio, molto più diviso e spaventoso se questa logica prevarrà. E’ ora di riconoscere ciò che Israele rappresenta e come non offra soluzioni, solo problemi molto più grossi.

 

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/israel-europes-ugly-ethnic-nationalisms/

Originale: Middle East Eye

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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