Intervista. L’ex responsabile auto della Fiom-Cgil: «Io ho conosciuto due Marchionne. Il primo è l’uomo che andava a parlare con gli operai, che attaccava la speculazione finanziaria. Dopo il 2008 cambia tutto».
di Maurizio Pagliassotti – Il Manifesto
Giorgio Airaudo, chi è Sergio Marchionne, il manager che per molti è ancora un mistero?
Io ho conosciuto due Marchionne. Il primo che va dal 2006 al 2008, è quello che salva la Fiat dal fallimento. L’uomo che andava dentro gli stabilimenti a parlare con gli operai, che sosteneva la necessità di nuovi modelli, che non addossava la crisi ai lavoratori, che attaccava la speculazione finanziaria. Un manager a cui nel mondo Fiat non si era abituati, che non scendeva nelle linee con il bastone del comando. In grado di fare la faccia feroce con il mondo bancario, a cui strappava la ristrutturazione del “debito convertendo” e nella trattativa con General Motors riesce perfino a guadagnare dei soldi. Nel fare questo si mette d’accordo con i sindacati per portare prima la Punto e poi la Mito a Mirafiori e firma l’ultimo contratto integrativo unitario con eguale aumento retributivo tra operai e impiegati: roba da anni settanta.
Il secondo?
Nel 2008 cambia tutto: un manager, con un nuovo stile comunicativo, con un approccio duro verso l’Italia e i lavoratori italiani. Prova a comprare la Opel e instaura una trattativa con Angela Merkel, la quale però non si fa convincere. Marchionne comincia ad avere uno sguardo globale, e grazie all’accordo con Barack Obama crea il colosso Fca. Ma è una cessione mascherata perché il problema principale di Marchionne non è più far crescere, o salvare, il gruppo Fiat: dal 2008 Marchionne ha in mano il futuro di Jeep, Chrysler e delle tute blu statunitensi. Alle quali, preveggente, il presidente Obama si rivolgeva assicurando lavoro e sviluppo dopo anni di de industrializzazione. L’Italia per Marchionne diventa marginale e iniziano i guai per i lavoratori: decide che i nostri operai devono omogeneizzarsi a quelli statunitensi o a quelli turchi. Si entra nella fase del “lavoro combattente”, in cui la fabbrica si salva solo sacrificando diritti e salari.
In che cosa Marchionne ha trasformato la Fiat?
In un’azienda apolide, sradicata dall’Italia: il tutto nel plauso dei governi. Sede ad Amsterdam, un pezzo delle tasse pagato a Londra, baricentro spostato negli Usa. I risultati sono stati ottimi per gli azionisti. Gli Agnelli dovrebbero dedicargli un monumento nel cuore di Torino. Ma oggi Fca, in Italia, ha seri problemi: un ritardo enorme sul futuro, in primis auto elettrica e a guida autonoma. Piani industriali disattesi, i volumi di Alfa Romeo lontanissimi da quanto previsto, il marchio Lancia quasi defunto, la stessa Fiat centrata solo sul modello 500. Sullo sfondo vi è il timore che la proprietà vada verso la vendita a pezzi dei vari marchi, oppure l’intero gruppo sia mangiato da un colosso dell’auto, magari i coreani.
Come è stato vissuto dalla politica italiana Sergio Marchionne?
La politica non ha posto vincoli a lui e alla Fiat, questa è la ragione per cui oggi Marchionne lascia l’azienda in mezzo a un guado, con la certezza che la famiglia Agnelli non sia in grado da sola di reggere la sfida del futuro. La politica poteva fare altro? La risposta apolide, denazionalizzante di Marchionne è stata accettata: nessun governo ha chiesto a Marchionne di investire in Italia, nessuno gli ha chiesto di non omologare l’operaio italiano a quello di statunitense o a quello turco. Nessun governo ha chiesto, soprattutto, la restituzione – con investimenti – delle risorse pubbliche che l’Italia ha dato alla Fiat.
Nel 2011, lei ebbe una trattativa con Marchionne?
Ci incontrammo nella foresteria del Lingotto dopo il referendum di Mirafiori, perché lo scontro si stava riproponendo a Grugliasco nell’impianto che oggi produce Maserati. Arrivò con un sondaggio, in cui si evidenziava come i consumatori italiani stessero punendo il marchio Fiat per via di quanto accaduto a Mirafiori. Ci disse: «Questi dati dimostrano che avete vinto voi». Era preoccupato. Quella trattativa diede via ad un approccio diverso da parte di Fiat, meno combattivo: ma poi la storia è andata diversamente. Il sindacato è rimasto senza una sponda politica forte, si poteva costruire un modello di fabbrica centrato sul raffreddamento del conflitto. Ma non è andata così. La politica ha usato Marchionne come un riverbero ma non lo ha mai condizionato: e lui ha sempre avuto la percezione che fosse sempre tutto facile in Italia.
http://www.sinistraineuropa.it/storie/marchionne-raccontato-da-airaudo-la-politica-italiana-gli-ha-premesso-tutto/