La fuoriuscita di scena di Sergio Marchionne dal mondo della grande economia e del grande padronato è indubbiamente un evento.
In questi frangenti occorre abbandonare una sorta di “luddismo emotivo”, distruttore singolarmente di questo o quel padrone o di questo o quel gestore di fabbrica o gruppo aziendale per suo conto.
Bisogna rimanere umani anche in questi frangenti e non lasciarsi andare all’odio fine a sé stesso, ma semmai conservare un rapporto classista, puramente economico, freddo e distaccato, considerando le funzioni che ciascuno ha nel sistema capitalistico.
Marchionne, per il ruolo che ha ricoperto, ha eccellentemente gestito il passaggio da una fase di fallimento della più grande azienda italiana di automobili (e non solo) ad una rinascita e rilancio del marchio FIAT successivamente condotto fuori dal Paese e fatto rinascere con fusioni e assimilazioni nel nuovo acronimo FCA. Unire per potenziare il debole e rafforzare chi era già forte.
A volte, unire due debolezze per creare una piccola forza, rimetterla sul mercato in piena concorrenza e ridarle lustro.
Il ruolo dell’imprenditore e del manager che lo rappresenta come amministratore delegato è questo: fare profitto e farlo rispettando scrupolosamente le regole della contraddizione capitalistica. In questo quadro di mera osservazione economicistica, Marchionne e i dirigenti di FCA hanno fatto un ottimo lavoro.
La classe padronale è sempre pronta, raramente si fa trovare impreparata e cerca di tutelare i suoi privilegi (per l’appunto di classe) spalleggiandosi, mettendo da parte le rivalità, costruendo davvero una unità di intenti.
La cosiddetta “era Marchionne”, dunque, dopo quindici anni circa di decisionismo padronale senza se e senza ma, finisce e i consigli di amministrazione delle varie aziende si sono trovate all’improvviso a gestire una situazione inaspettata: correre ai ripari, eguagliare la capacità di un uomo con tre lauree, certamente brillante, intelligente e capace di svolgere appieno il suo ruolo nel sistema delle merci.
Per noi Marchionne rimane l’immagine del contraltare, dell’esatto opposto dell’interesse proletario ed operaio: per noi rimane colui che ha risanato FIAT ma che non è riuscito a farle risalire nuovamente la china del mercato mondiale dell’auto se messa al confronto con altri grandi marchi come Volkswagen, Toyota o Renault.
Ha fatto uscire la grande casa torinese non solo dall’ambito piemontese, tutto intriso di fine ‘800 e inizio ‘900, ma anche dal contesto italiano tutto novecentesco.
L’ha proiettata nel mondialismo e nella globalizzazione facendo pagare ai lavoratori degli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori salassi altissimi in nome di una riconversione industriale tutta proiettata all’estero non solo per delocalizzazione e taglio drastico della forza lavoro (nei primi anni 2000 la FIAT aveva 130.000 operai circa; oggi ne conta più o meno 30.000…) ma mettendo al centro un piano strategico che decontestualizzasse lo scenario italiano dall’ambito produttivo della futura FCA.
L’etica c’entra poco nelle analisi economiche e nei commenti della stessa risma, giacché il padrone e il suo amministratore delegato, come già detto, non agiscono secondo etica, non sono “buoni” o “cattivi”: sono solamente ciò che il sistema affida loro come ruolo. Sono “padroni”, sono i rappresentanti della produzione del profitto e sono essi stessi la manifestazione evidente dell’esistenza della lotta di classe che oggi la gran parte dei lavoratori non percepisce come fenomeno che la riguarda direttamente per evolvere e costruire una vita degna di essere vissuta.
Nella “Canzone della merce”, Bertolt Brecht scrive: “Io non so cos’è un uomo, so solo il suo prezzo”. Questa è l’antietica del capitalismo e non si può pretendere nemmeno una sorta di “paternalismo” tiranneggiante da chi non si considera tiranno ma solo una “funzione” del e nel sistema.
Del resto, se dovessimo applicare considerazioni storico-etiche allo sfruttamento della forza lavoro da parte del capitalista, dovremmo pensare che potrebbe accampare giustificazionismi persino biblici, laddove nel testo sacro per i cristiani si legge la maledizione lanciata da Dio contro Adamo: “Lavorerai col sudore della fronte!”. Ergo, faticherai, quindi nel lavorare dovrai patire.
Il capitalismo interpreta molto bene tutto ciò e lo ha esasperato all’ennesima potenza.
Possono esistere tutte le “ere” di tutti i manager che si vogliono: qualcuno può essere più intelligente, acuto, bravo e sagace come Marchionne, altri possono essere invece mediocri interpreti della regola dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma ciò che oggi accade, quindi la chiusura di un ciclo di gestione economico-industriale di FCA con l’uscita di scena di un manager, va valutata dai lavoratori anche con una legittima rabbia, magari pure con risentimento e odio, che riporta alla mente la canzone di Paolo Pietrangeli “Mio caro padrone, domani ti sparo, farò di tua pelle sapon di somaro…”… Non si può negare ciò a chi si è visto cancellare la vita e la prospettiva della medesima per “scelte industriali”.
Ma bisogna comunque conservare una visione globale degli eventi, contestualizzandoli e mettendo un giusto distacco emotivo tra chi sfrutta e chi è sfruttato. La soddisfazione di aver anche il nostro disprezzo non gliela possiamo dare.
Ciò che conta è spezzare l’apparenza della normalità di tutto ciò: “La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il Re è il Re, non si rende conto che in realtà è il Re che è Re perché essi sono sudditi.“.
Le colpe dei manager sono ascrivibili all’essere stati fedeli al loro ruolo di classe in questa società. Quelle dei lavoratori sono invece riconducibili alla mancata presa di coscienza di essere ciò che il sistema vuole che siano, mentre possono ribellarsi ai ribelli: ribellarsi ai padroni, alla presunta “naturalità” del capitalismo, della sua indiscussa esistenza in tutto il globo terracqueo.
Dopo Marchionne viene Mike Manley. Nessun lavoratore si aspetti un mondo migliore. Si aspetti quanto meno la continuità con la precedente gestione ed, anzi, il suo “miglioramento”, quindi l’inasprimento dei rapporti tra proprietà e maestranze, tra capitale e lavoro.
La lotta di classe, silenziosa, dormiente, priva di sussulti coscienziosi.

MARCO SFERINI

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/dallera-di-un-manager-allera-di-un-altro/

 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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