Riceviamo e pubblichiamo
di Franco Astengo
La democrazia liberale europea, quella che ha garantito il compromesso socialdemocratico dei “trenta gloriosi” è in crisi: una crisi che secondo Gianfranco Pasquino deriva dall’incompetenza, dalla disinformazione, dal mancato impegno, dal conformismo dilagante.
La valutazione dell’illustre politologo bolognese è sicuramente incompleta e andrebbe accompagnata da un’analisi riguardante ciò che è accaduto alla fine del mondo bipolare con l’introiettazione, prima di tutto sul piano culturale, dell’idea della “fine della storia” e l’accettazione del processo definito di globalizzazione accompagnato da una fretta eccessiva nell’accelerare la “cessione di sovranità” dello Stato Nazione.
I risultati di questo stato di cose sono sotto gli occhi di tutti e possono essere riassunti in due punti: allargamento delle disuguaglianze su tutti i piani; intensificazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nell’ampliarsi della differenza di genere, nell’imposizione del predominio della tecnica e dell’economia; nella riduzione della politica a governabilità amministrativa.
Oggi i nodi stanno venendo al pettine e non sembra che si cerchino di sciogliere per il verso giusto: anzi.
Certamente, a cinquant’anni di distanza dall’Agosto praghese, per chi ha vissuto quei momenti l’amaro in bocca rimane.
Allora, infatti, il tema era quello del nesso tra socialismo e democrazia tentato dalla “Primavera” : esperimento brutalmente stroncato dai carri armati del Patto di Varsavia: certo con tutte le contraddizioni dell’epoca che è difficile riassumere qui in poche righe.
Oggi, invece, si profila una crisi verticale della democrazia che, a quel tempo, definivamo come “borghese”.
Una crisi che apre le porte al profilarsi dell’instaurazione di regimi autoritari fondati su principi che possono essere ben appellati come di “arretramento storico”: di ritorno ai tempi cupi degli anni’30 –’40 del 900, i tempi del fascismo e del nazismo.
All’interno delle grandi potenze i segnali di questa involuzione ci sono giù tutti e ben evidenti.
Allora diventa ancora una volta è importante ricordare Praga ’68, momento fondamentale di snodo nella storia europea e mondiale. Una vicenda molto diversa da quella di Budapest ’56. Da Praga sortì la lunga fase del “gelo brezneviano” e si posero le condizioni oggettive del crollo del sistema sovietico. Emerse l’impossibilità di un’autoriforma che pure nel periodo ’56- ’64 aveva animato il dibattito all’interno del movimento comunista internazionale.
Ma, sul piano culturale, come può essere possibile oggi identificare il tentativo portato avanti dal Partito Comunista Cecoslovacco?
Il tentativo della “primavera di Praga” iniziò coltivando l’ipotesi che fosse possibile andare oltre le diagnosi e i rimedi proposti dal XX congresso del PCUS nel 1956, utilizzando lo spazio aperto dalla nuova politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev.
Data la situazione complessiva entro il blocco sovietico, in un primo tempo, i successi dei tentativi che furono svolti sulla base di quell’analisi, risultarono scarsi ed effimeri.
L’idea di “andare oltre” il XX congresso pur essendo presente come corrente all’interno dei partiti comunisti in tutto l’ambito del Patto di Varsavia, ebbe effettivamente una funzione politica decisiva soltanto in due casi: in Ungheria e in Cecoslovacchia.
Il caso ungherese risultò anomalo in due sensi: infatti, il primo insorgere di un movimento di riforma comunista (il governo Nagy tra il 1953 e il 1955) si verificò addirittura in precedenza alla celebrazione del XX congresso e fu inevitabilmente destinata al fallimento; il secondo tentativo, invece, nel 1956 la temporanea egemonia della corrente riformista era solo la conseguenza di un’esplosione rivoluzionaria incontrollabile e la reazione dell’apparato dirigente conservatore e dell’URSS fu, logicamente, commisurata a quel dato d’incontrollabilità.
In contrasto con la nascita precoce e la distruzione prematura della variante ungherese, il tentativo di riforma in Cecoslovacchia fu più lento a maturare, più saldamente radicato e meglio attrezzato per una graduale radicalizzazione.
Ebbe origine, infatti, da una reazione tardiva rispetto al XX congresso e acquisì un più deciso impulso a partire dal 1963; la sua vittoria nel 1968 fu il segnale di partenza per movimenti di base, che avevano negli intellettuali il supporto più attivo, ma si espandevano ad altri settori della popolazione.
Il modello cecoslovacco può essere perciò considerato il solo caso completo di tentativo di riforma di un regime “a socialismo reale”.
Su queste basi si verificò una grande osmosi tra l’ideologia di trasformazione del regime e l’analisi critica complessiva del “socialismo reale” stesso.
Negli anni’60 il crescente movimento di riforma assorbì l’immissione di energie intellettuali di varie correnti e discipline e anche dopo l’invasione, l’eredità della “primavera” continuò a influire in modo diretto sull’insieme del dissenso, a Est come a Ovest.
Si dimostrò subito come il programma di riforme fosse incompatibile con gli interessi costituiti del gruppo dirigente sovietico, nel quadro – tra l’altro – di una nuova forzatura bipolare dell’equilibrio mondiale in conclusione del tentativo di distensione attuato nella prima metà degli anni ’60 (pur con grandi contraddizioni: muro di Berlino, missili a Cuba).
Dopo la seconda guerra mondiale, la Cecoslovacchia (paese di grande tradizione industriale, con una classe operaia molto avanzata fin dagli anni’20 in un contesto di disponibilità di alta tecnologia in campo meccanico , dell’industria di precisione e degli armamenti) era il paese nel quale il partito comunista disponeva del maggior sostegno di massa tra i lavoratori e gli intellettuali.
Ciò aveva reso più facile la conquista del potere e meno vulnerabile il regime postrivoluzionario, anche se il meccanismo iniziale era stato quello del classico colpo di stato nella primavera del ’48.
Di fronte alla politica di “normalizzazione” si aprì, dunque, fin dall’inizio degli anni’60 per poi prendere corpo nel corso del decennio l’idea di un nuovo sistema politico.
Questa idea fu al centro dei più franchi dibattiti pubblici che ebbero luogo nei Paesi dell’Est, tra il gennaio e l’agosto del 1968.
Nella sinistra in cui i comunisti lavoravano in direzione dell’emancipazione politica delle forze sociali, c’era una traccia autenticamente pluralista.
Nel loro programma c’era anche, e veniva apertamente affermato da alcuni teorici del movimento, uno sforzo per cambiare i rapporti tra stato e società civile.
In questo senso, un primo documento programmatico di Zdenek Mlynar rappresentava in modo fedele questa linea di sviluppo “ Prima di tutto si deve riconoscere che lo status di agente politico indipendente doveva essere attribuito alle diverse componenti specifiche dei gruppi e degli strati sociali, ai gruppi d’interesse comune e, in ultimo, a ogni cittadino in quanto individuo”.
Nelle discussioni meno ufficiali emergevano due linee di differenziazione: una di esse divideva i gradualisti da coloro che sostenevano che solo un’accettazione immediata dei principi pluralistici poteva assicurare il successo a lungo termine del movimento.
Il tema dibattuto in modo più vivace era quello dell’istituzionalizzazione dell’opposizione politica.
Questo tema, dopo un serrato scambio di vedute fra maggio e giugno, fu posto in ombra da questioni più urgenti ma non vi è ragione per dubitare che per molti all’interno del PCC si concepisse l’introduzione di un sistema pluripartitico come lo sbocco logico del processo di democratizzazione, anche se non si arrivava a pensare che le condizioni del 1968 fossero mature per un simile esito.
Il secondo aspetto delle discussioni si sviluppò più lentamente e riguardava l’introduzione di elementi di democrazia diretta, in luogo della scelta di una più stretta osservanza dei principi della democrazia parlamentare.
In termini più pratici ciò significava la richiesta di autogestione.
Dopo alcuni inizi incerti l’idea di “organi democratici di gestione” guadagnò rapidamente terreno e quando apparvero sulla scena i “Consigli del popolo lavoratore” (da non confondersi con i consigli operai intesi in senso stretto) il conflitto prima latente fra concezioni democratiche e tecnocratiche si fece più acuto.
I tentativi di difendere i Consigli furono gli atti più importanti della resistenza durante i sette mesi tra l’invasione e l’avvento della normalizzazione completa avvenuta nell’aprile del 1969.
A posteriori, si può vedere in questo passaggio un primo accenno a una strategia che, più tardi, sarebbe stata applicata in Polonia: basare la lotta per le riforme su un movimento sociale esterno al Partito.
Ma in Cecoslovacchia questa ipotesi fu prospettata solo quando il movimento della “primavera” era ormai sulla difensiva.
Il dibattito sull’autogestione chiamava in causa anche il terzo pilastro dell’ideologia delle riforme: la teoria della “produzione socialista di beni di consumo”.
Riforme del genere erano discusse e in una qualche misura messe in atto dappertutto, ma solo in Cecoslovacchia questo tema era legato a quello di un generale rinnovamento di carattere intellettuale e politico.
In Ungheria le riforme economiche si spinsero più avanti rispetto agli altri paesi dell’Est europeo, ma il loro contesto sociale fu determinato dalla sconfitta della rivoluzione del 1956 e dalla distruzione dell’ipotesi di riforme politiche; in Polonia le proposte di riforme economiche divennero negli anni’60 sempre più accademiche e fuori sintonia con la politica di Gomulka.
Dopo l’aprile del 1969 il tentativo di riforma, nel senso tradizionale del termine, non costituì più un’opzione praticabile, ma le conclusioni da trarre dalla sconfitta non erano per nulla ovvie.
In seguito Rossana Rossanda introducendo, dieci anni dopo a Venezia, un convegno su “potere e opposizione nelle società post – rivoluzionarie” organizzato dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono per la prima volta di persona dissidenti dell’Est russi, polacchi, cecoslovacchi, sostenne che si era smarrita in quel frangente l’idea del socialismo, non come generica aspirazione, ma come “teoria di una società”, modo diverso degli uomini di organizzare la loro esistenza.
E’ questo un punto di riflessione da riportare in evidenza nel quadro della crisi – evidente almeno nei paesi europei sia di democrazia “matura” sia di nuova democrazia post- 89 – della democrazia liberale.
In questa fase di evidente “rivoluzione passiva” ricordare gli elementi fondativi della primavera di Praga, oggi di fronte al fallimento epocale dell’ipotesi capitalistica seguita alla caduta dei blocchi e all’affermazione di un solo modello di egemonia sociale fondato sull’ìper-liberismo e sull’assolutismo della finanza può essere ancora esercizio utile se partiamo proprio dall’idea di non abbandonare l’obiettivo di una società “altra” rispetto alla crisi della democrazia liberale: opponendoci, prima di tutto, al riemergere dell’assolutismo e avanzando, con tenacia, proposte alternative anche in una condizione di apparente minorità.
Rimangono sullo sfondo i temi delle istituzioni e dell’organizzazione politica sui quali deve essere aperta una riflessione al riguardo della quale l’analisi di ciò che accadde a Praga il 21 agosto 1968 deve far parte e non certo semplicemente per un richiamo storico.