Il ponte autostradale sul torrente Polcevera è stato costruito tra il 1963 e il 1967 e ha resistito – come è ormai tragicamente noto – solo cinquant’anni. Ho studiato filosofia antica, non posso certo dire se c’erano limiti già nel progetto di quel ponte o se sia stato realizzato male o se semplicemente non potesse durare di più, visto il materiale in cui era stato realizzato e il carico, sempre crescente, che doveva sopportare. Certo di tutto questo si discuterà a lungo, ma comunque chi aveva in carico quel ponte – e chi da quel ponte guadagnava con i pedaggi – doveva impedire che crollasse proprio il 14 agosto e che quel crollo provocasse tutti quei morti.
Non voglio parlare di queste responsabilità, ma proprio del progetto, di quello che rappresentò nell’Italia di allora. Progetto è una parola moderna, anche se ovviamente risale al latino, che deriva in questo suo significato sia in italiano che in inglese dal francese projet. E’ una parola ottimista, se ha un senso dare questo aggettivo a una parola, è l’idea di poter costruire il futuro. Cinquant’anni sono pochi – noi uomini che siamo intorno a quella soglia pensiamo di avere ancora tantissime cose da fare, quasi tutta la vita davanti – eppure quell’Italia là sembra molto distante dal paese di oggi, almeno quanto l’Italia di Garibaldi e di Cavour. E invece è l’Italia in cui sono cresciuti i nostri genitori.
Chi aveva vent’anni quando si cominciò a costruire il ponte era cresciuto in un paese in cui non solo il ricordo, ma anche l’esperienza della guerra era ancora molto viva tra le persone. A vent’anni si hanno delle speranze – molte di più e con maggior ragione di quando se ne hanno cinquanta – e quel ponte era un pezzo, tangibile e concreto, di quella speranza. Ce lo hanno raccontato in questi giorni tanti genovesi, che hanno ricordato l’entusiasmo con cui assistevano alla costruzione del loro ponte di Brooklyn.
Riccardo Morandi era uno dei tantissimi tecnici che mettevano le proprie capacità a disposizione di questa Italia che stava ricostruendo tutto quello che la guerra aveva distrutto e che voleva crescere. Era un’Italia artigiana, che faceva, che sapeva fare e che insegnava a fare. Morandi, tra le tante cose che fece in tutto il mondo, vinse il concorso internazionale per il salvataggio dei templi egizi di Abu Simbel e i suoi ponti diventarono un simbolo di modernità.
Perché quell’Italia in soli cinquant’anni è rimasta fisicamente e moralmente sotto le macerie di qual ponte? Nel ’63, l’anno in cui cominciò la costruzione, uscì il film di Francesco Rosi Le mani sulla città. Chiaramente in quell’Italia lì la malattia stava già incubando: bisognava costruire, c’era bisogno di nuove case, di nuove strade, di nuovi ponti, bisognava farli e farli in fretta. In tante zone d’Italia – non solo nel Mezzogiorno – questo significò dare il via libera alle forze peggiori del paese, e agli istinti peggiori delle persone. Certo erano i grandi costruttori quelli che ci guadagnavano di più, insieme ai politici, ai tecnici, ai magistrati che garantivano loro protezione e appoggi, ma quella corruzione rispondeva a delle necessità collettive e creava ricchezza. Quei cantieri garantivano posti di lavoro per tantissimi lavoratori, che avevano bisogno di case. Erano brutte case? Certamente, ne erano consapevoli quelli che ci andavano a vivere, ma contavano che sarebbe stata una soluzione temporanea e così fu per molti di loro. Grazie al loro lavoro poterono negli anni successivi lasciare quelle brutte case e averne di più belle e dignitose. Di quella corruzione godevano in qualche modo i frutti troppo persone e si chiusero gli occhi. L’Italia cresceva, le persone nate alla fine della guerra in un’Italia poverissima, potevano legittimamente sperare che i loro figli sarebbero cresciuti in un paese in cui la guerra non ci sarebbe più stata e che avrebbero avuto opportunità che per loro sarebbero state inimmaginabili. E fu esattamente così. Quell’Italia era un gigante con i piedi di argilla o di cemento armato, probabilmente il materiale simbolo di quell’età.
Il 1967, quando il ponte fu inaugurato, non fu un anno memorabile per il cinema italiano: tanti musicarelli, moltissimi spaghetti western, qualche film scollacciato, soprattutto storie di gangster e di spie. Ma fu anche l’anno di “Edipo re” di Pier Paolo Pasolini. Il grande intellettuale sentì il bisogno di fuggire dal presente, di tornare a un grande classico. Certo si trattava di un’indagine autobiografica – qualcuno la lesse come un ripiegamento nel privato – ma con la storia di Edipo Pasolini vuole anche raccontarci la storia di un uomo che, accecato dalla volontà di non sapere ciò che è, avanza inesorabilmente verso la catastrofe. E’ una storia immortale, è la condizione umana, ma mi sembra che ben si adatti a quegli anni.
In quello stesso anno usciva la raccolta di racconti di Italo Calvino “Ti con zero”. Mentre Pasolini ritorna all’antica Grecia, lo scrittore sanremese si dedica a un genere nuovo, più vicino alla fantascienza, per quanto ancora una volta molto personale. Con questi racconti Calvino in qualche modo fugge da una realtà che gli va sempre più stretta per affrontare l’insieme di tutte le possibilità narrative che una situazione, semplice, apparentemente banale, può contenere e sviluppare. Si tratta di approcci antitetici, assolutamente diversi, fughe nel passato e nel futuro, ma in qualche modo entrambi campanelli d’allarme lanciati da questi due grandi intellettuali. Naturalmente questo allarme non fu ascoltato.
Sempre in quell’anno debutta alla Fenice di Venezia una nuova commedia di un altro grande intellettuale italiano, Eduardo De Filippo, intitolata “Il contratto”. E’ un’opera meno nota del grande drammaturgo, ma da lui molto amata e considerata una delle più significative. Il protagonista, Geronta Sebezio, assicura di poter far tornare in vita una persona appena morta, a certe condizioni, sancite appunto nel contratto che fa sottoscrivere alla persona che si rivolge a lui prima della morte: il desiderio sincero dei familiari di riaverlo tra di loro e un testamento generoso verso tutti, anche le persone detestate in vita. Ovviamente Sebezio non ha alcun potere taumaturgico, ma approfitta della naturale paura di morire e dell’altrettanto prevedibile rapacità dei parenti rimasti in vita. E infatti quel contratto e le sue conseguenze diventano il modo per il protagonista, che conosce assai bene le debolezze degli uomini, di impadronirsi con una serie di raggiri di una parte del patrimonio del defunto. Non ebbe molta fortuna questa commedia, fu poco rappresentata, perché metteva di fronte agli spettatori uno spettacolo che non volevano vedere: la loro avidità, il loro egoismo, la loro falsità. La commedia si chiude con la scena di una festa di nozze, in cui gli invitati sono impegnati ad arraffare ogni cosa che si possa mangiare, compresa la frutta dei festoni. Questo era l’Italia del ’67 che raccontava, anche lui inascoltato, Eduardo.
Ma c’era anche un’Italia che aveva un altro progetto, c’era un pezzo d’Italia che provava a costruire una società diversa, più giusta. Era anche l’Italia in cui i lavoratori volevano essere protagonisti di un riscatto sociale. Ma contro questa Italia sarebbe arrivato – solo due anni dopo l’inaugurazione del ponte Morandi – l’attacco delle forze del capitale con la strage di piazza Fontana. Fu un attacco violento, durissimo, da cui il paese non riuscì a rialzarsi. Rimasero i palazzinari, i politici e i magistrati al loro servizio, rimasero quelli che provavano a prendere le briciole del loro banchetto, e rimasero quelli come Sebezio, che si approfittavano di questa situazione.
Quando dobbiamo cercare le cause del crollo del ponte, non possiamo fermarci all’ultimo camion che ha provocato la vibrazione fatale, ma dobbiamo pensare alla storia di quel ponte. Così, quando dobbiamo cercare le cause del crollo del nostro paese, non possiamo fermarci alla fine, alle meschinità del tempo in cui viviamo, ma dobbiamo avere la capacità di guardare a una storia più lunga, dobbiamo capire qual era il progetto. Soprattutto se abbiamo l’ambizione – e spero che qualcuno tra i giovani l’abbia – di ricostruire dalle macerie. Sento che adesso tanti dicono che bisogna ricostruire quel ponte, anzi che bisogna ricostruire tantissimi ponti, e che è possibile farlo in fretta – dicono che è possibile rifare il ponte sul Polcevera in meno di un anno – mi sembra che ci sia la stessa frenesia di rapina di cinquant’anni fa, ma senza l’entusiasmo, forse un po’ ingegno, di allora. Credo che i ponti che costruiremo così saranno destinati a crollare ben prima che tra cinquant’anni. E con loro il paese. Bisogna fare altro, prima di ricostruire i ponti, bisogna riannodare quei fili che si sono spezzati cinquant’anni fa, bisogna studiare le opere dei maestri che hanno provato a metterci in guardia, bisogna provare a recuperare il buono che c’era in quel progetto di società.

 

 

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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