Il capitalismo usa il razzismo per perpetuarsi e per colpire la classe lavoratrice. Per combatterlo non basta l’atteggiamento umanitario ma serve la coscienza di classe che individui il vero nemico.
Il razzismo, per quanto abominevole, non è, almeno nella nostra era, una malattia sociale, ma è un carattere fisiologico delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, in quanto costituisce una potente leva per fare profitti e per dividere le classi lavoratrici. Per questo, quando se ne presenta l’opportunità, viene scientemente iniettato in dosi massicce nel corpo della società.
Il compianto Domenico Losurdo [1], ha già ampiamente documentato come, fin dagli albori del capitalismo, l’ideologia liberale abbia elaborato una sorta di la de-umanizzazione delle razze indigene come pretesto e giustificazione delle colonizzazioni delle loro terre e dell’intensivo sfruttamento del loro lavoro. Tra i tantissimi intellettuali da lui citati, c’è l’economista apologetico borghese John Stuart Mill, il quale, mentre elogiava la libertà occidentale, sosteneva che “il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari»¡”. Lo stesso Tocqueville, considerato un campione della democrazia, predicava la supremazia occidentale e il rischio di una “misce generation”, cioè la mescolanza di diversi gruppi razziali, per cui si rendeva necessario tenere ben distinta la razza superiore bianca da quelle inferiori, considerate alla stregua di animali parlanti. Lo stesso nazismo e il manifesto della razza fascista trovano i loro precedenti in questa tradizione liberale: un razzismo che non si limitava a de-umanizzare i neri e gli ebrei, ma anche i popoli slavi, così come oggi avviene nei confronti di altri popoli che ci interessa colpire.
Anche la deportazione e la messa in schiavitù dei neri africani per farli lavorare fino allo stremo e senza alcun diritto nelle piantagioni americane necessitava del razzismo quale sovrastruttura ideologica ideale. Analogamente bollare l’islam come sinonimo di barbarie è stato d’aiuto per far introiettare la giustezza delle guerre ai paesi arabi e delle varie “operazioni di polizia internazionale”, “guerre umanitarie” ecc.
Che dire poi delle migrazioni, provocate in gran parte proprio da queste guerre, dalla rapina coloniale e post coloniale e dai cambiamenti climatici causati dal nostro insensato modo di produzione? Le varie leggi che regolano o hanno regolato il fenomeno, dalla legge Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, costringono sostanzialmente gli immigrati non ricchi a giungere presso di noi clandestinamente e, in attesa della difficilissima regolarizzazione, a lavorare in forma pressoché schiavistica, senza alcun diritto e sotto costante ricatto. La costrizione ad accettare qualsiasi condizione di lavorativa comporta, specialmente in questo periodo di sottoccupazione, la concorrenza fra lavoratori e di conseguenza una riduzione generalizzata del costo del lavoro. I conseguenti contrasti fra la forza-lavoro autoctona e quella immigrata, abilmente enfatizzati dai media, determina una divisione del proletariato e il suo indebolimento, oltre a un diversivo per far perdere di vista la circostanza che il nemico comune è la classe che sfrutta entrambi.
Questo fenomeno non è una novità e bisognerebbe averne consapevolezza per poterlo gestire. Ovvio che il compito dei comunisti non può che essere il contrasto a questa divisione e l’improbo tentativo di unificare il mondo del lavoro.
Già Marx si oppose attivamente ai pregiudizi e i privilegi nazionali e razziali, denunciando inoltre le condizioni economiche e sociali che li favoriscono e dividono i lavoratori (uomini liberi contro schiavi e nativi contro immigrati). Egli sostenne i nordisti nella guerra di secessione americana e la lotta per l’indipendenza irlandese dal dominio coloniale inglese.
Questo suo schieramento non partiva da motivazioni etiche, ma da un’attenta analisi dei rapporti fra le classi. Per lui l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti e l’abbattimento del dominio inglese sull’Irlanda sarebbero stati utili all’autonomia dei lavoratori bianchi americani e inglesi, a superare la loro identificazione con le classi dirigenti dei rispettivi paesi e con ciò a battersi al superamento del dominio capitalistico.
Per quanto riguarda la guerra di secessione americana, Marx era pienamente consapevole che lo scopo reale nordisti non era l’eliminazione della schiavitù, ma di mantenere l’unità degli Stati Uniti. Tuttavia egli era convinto che la vittoria sui secessionisti confederati sudisti presupponeva la liberazione degli schiavi negli Stati Uniti. Per far volgere le sorti della guerra in loro favore, i nordisti avrebbero dovuto liberare gli schiavi, cosa che puntualmente avvenne con la guerra ancora in atto.
“Fin dall’inizio, i nordisti sono stati dominati dai rappresentanti degli stati schiavistici di frontiera […]. Il nord stesso ha trasformato la schiavitù in una forza pro anziché in quella anti-sudista. Il Sud lascia il lavoro produttivo agli schiavi e può così scendere in campo indisturbato con la sua forza combattente intatta. Aveva una leadership militare unificata; il Nord no. È evidente che non ci fosse alcun piano strategico […] A mio avviso, tutto ciò richiederà un’altra svolta. Il Nord, infine, farà la guerra sul serio, ricorrerà a metodi rivoluzionari e rovescerà la supremazia degli uomini di stato schiavisti di confine. Un singolo reggimento negro avrebbe un notevole effetto nei confronti dei sudisti. […] Il Nord-Ovest e il New England desiderano abbandonare la guerra diplomatica che hanno intrapreso fino ad ora […] e costringeranno il governo a farlo. Se Lincoln non cederà (e non lo farà, comunque), ci sarà una rivoluzione” [2].
Anche nel Capitale, ove abbondano i riferimenti alla guerra civile americana [3], ribadì la sua contrarietà allo schiavismo, manifestando l’orrore per i metodi barbarici adottati, su cui si innestava quello per i metodi di sfruttamento capitalistico, ma anche sostenendo che la liberazione degli schiavi avrebbe rafforzato il movimento autonomo dei lavoratori. E non mancò di criticare i lavoratori bianchi americani per la difesa dei loro privilegi nei confronti degli schiavi e per l’assenza di solidarietà con i lavoratori europei.
All’interno di una diffusa trattazione della lotta per la giornata lavorativa normale, dopo aver con grande trasporto illustrato la penosità del lavoro degli schiavi, e colto tuttavia le analogie con il lavoro salariato, egli scrive: “Il lavoro di pelle bianca non può emanciparsi in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è di pelle nera. Ma dalla morte della schiavitù germogliò subito una vita nuova e ringiovanita. Il primo frutto della guerra civile fu l’agitazione per le otto ore” [4].
A proposito della rivolta irlandese, in una lettera del 29 novembre 1969 a Ludwig Kugelmann, sottolineò che il suo scopo non era solo quello di “parlare agli irlandesi oppressi contro i loro oppressori”, ma soprattutto quello di orientare la classe operaia inglese a combattere per l’indipendenza dell’Irlanda, non come fatto solidaristico, ma nell’interesse del proletariato inglese.
La classe operaia“qui in Inghilterra non potrà mai fare qualche cosa di decisivo, fintanto che non separerà la sua politica riguardo all’Irlanda […]dalla politica delle classi dominanti, fino a quando non solo farà causa comune con gli irlandesi […] E questo anzi deve essere fatto non come cosa sorta dalla simpatia per l’Irlanda, ma come una rivendicazione fondata sull’interesse del proletariato inglese. Altrimenti il popolo inglese rimane al guinzaglio delle classi dominanti perché con queste esso deve fare causa comune di fronte all’Irlanda. Ogni suo movimento nella stessa Inghilterra rimane paralizzato dal dissidio con gli irlandesi che nell’Inghilterra stessa formano una parte assai considerevole della classe operaia”. [5].
Concetti analoghi sono ribaditi in un’altra lettera a Engels del 10 dicembre 1869 [6]: mentre bisognava dare per scontati l’internazionalismo, la giustizia e l’umanità, l’indipendenza irlandese era importante in quanto “interesse diretto e assoluto della classe lavoratrice inglese sbarazzarsi del suo legame con l’Irlanda. E questa è la mia più completa convinzione […] La classe lavoratrice inglese non realizzerà mai nulla prima che si sia sbarazzata dell’Irlanda. La leva deve essere utilizzata in Irlanda. Questo è il motivo per cui la questione irlandese è così importante per il movimento sociale in generale”.
E nella sua lettera del 9 aprile 1870 a Sigfrid Meyer e August Vogt, ribadì: “L’Irlanda è il baluardo dell’aristocrazia fondiaria inglese. Lo sfruttamento di questo paese non è soltanto una delle fonti principali della sua ricchezza materiale. Esso è anche la sua massima autorità morale. […] L’Irlanda, perciò è il grande mezzo mediante il quale l’aristocrazia inglese conserva il suo dominio anche in Inghilterra. D’altro canto: se domani l’esercito e la polizia inglese si ritirano dall’Irlanda, voi avrete immediatamente una rivoluzione agraria in Irlanda. La caduta dell’aristocrazia inglese in Irlanda condiziona, a sua volta, e ha come conseguenza necessaria la sua caduta in Inghilterra. Ciò soddisferebbe la condizione preliminare per la rivoluzione proletaria in Inghilterra.
[…] Per quanto riguarda la borghesia inglese questa ha d’abord in comune con l’aristocrazia inglese l’interesse a trasformare l’Irlanda in pura e semplice terra da pascolo che fornisce carne e lana ai prezzi più bassi possibili per il mercato inglese. Essa ha lo stesso interesse a ridurre la popolazione irlandese al minimo mediante esproprio ed emigrazione forzata […]. Essa ha i medesimi interessi a spopolare le terre d’Irlanda, che aveva a spopolare i distretti agricoli di Inghilterra e Scozia.
[…] Ma la borghesia inglese ha interessi ancora più notevoli nell’attuale economia irlandese. Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto l’Irlanda fornisce il suo sovrappiú al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.
E ora la cosa più importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda.
Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo.
[…] L’unico mezzo per accelerarla [la rivoluzione in Inghilterra] è rendere indipendente l’Irlanda. Di qui ne deriva per l'”Internazionale” il compito di mettere sempre in primo piano il conflitto tra Inghilterra e Irlanda, di prendere sempre posizione aperta a favore dell’Irlanda. Il compito specifico del Consiglio centrale a Londra, è di risvegliare nella classe operaia inglese la consapevolezza che l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è per essa una questione di astratta giustizia o di sentimenti umanitari bensì la prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale” [7].
Da questi passaggi si evince che la posizione marxiana rimaneva ferma nonostante la piena consapevolezza che gli emigrati irlandesi alimentassero l’esercito industriale di riserva inglese e quindi determinassero una riduzione dei salari e delle condizioni di vita della classe operaia inglese.
È evidente la distanza fra l’atteggiamento di Marx, e quello della “sinistra” di impronta blairiana o clintoniana, oscillante fra una difesa degli immigrati in termini caritatevoli, anche tramite vuoti appelli ai lavoratori nazionali, e qualche compromesso con gli xenofobi. Al Moro non interessava rincorrere la pancia dei lavoratori, né convincerli ad essere più umani, ma perseguire gli interessi storici della classe lavoratrice. Per lui la soluzione non era il controllo dei flussi, ma la liberazione dell’Irlanda, individuando nella sua oppressione, nell’espulsione in massa dei contadini dalle terre, la causa delle immigrazioni. Perciò l’indipendenza irlandese (oggi dovremmo dire la liberazione dei paesi sottosviluppati dalla dipendenza economica dall’imperialismo) avrebbe incrinato il potere dei capitalisti inglesi, e la cosa aveva un elevato valore strategico. Cosa ben diversa da chi si limita a invocare umanità o ha operato per arrestare i flussi migratori, perfino mettendo cinicamente i bastoni fra le ruote alle organizzazioni umanitarie che soccorrevano i naufraghi, e ottenendo – anziché lo sperato consenso popolare – che il leghista Salvini, nel frattempo si insediasse al ministero dell’Interno, e da lì, inevitabilmente, rilanciasse raddoppiando la posta, chiudendo i porti italiani ai naufraghi e dichiarando la fine della “pacchia” per quei disgraziati.
Nell’interesse complessivo dei lavoratori, è necessario non assecondare le pulsioni del proletariato “bianco”, ma promuovere la maturazione complessiva e l’unificazione delle classi sfruttate a qualsiasi etnia appartengano, partendo dall’analisi delle radici economiche, sociali e geopolitiche dei flussi migratori e del ruolo della competizione fra lavoratori delle varie etnie per frammentare il fronte della classe lavoratrice. La forte ascesa in tutta Europa delle forze xenofobe e neofasciste, se da un lato sancisce il fallimento della sinistra moderata, impone ai comunisti di non limitarsi ai pur necessari antirazzismo e antifascismo militanti, ma di spendersi in un faticoso lavoro internazionalista per sconfiggere l’imperialismo e riaggregare la dispersa classe lavoratrice.
Note:
[1] Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, ed. Laterza, Bari, 2005.
[2] Karl Marx, Lettera Engels del 7 agosto 1862, scaricabile nella versione inglese su https://marxists.catbull.com/archive/marx/works/1862/letters/62_08_07.htm, trad. in italiano mia.
[3] Karl Marx, Il Capitale, libro I, edizione e traduzione a cura di Roberto Fineschi, La città del Sole, 2011. Dall’indice analitico del volume di apparato risulta che questa guerra sia richiamata 24 volte!
[4] Ivi, p. 326.
[5] Scaricabile all’indirizzo https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1869/kungel.htm.
[6] Scaricabile in lingua inglese all’indirizzo https://www.marxists.org/archive/marx/works/1869/letters/69_12_10-abs.htm, trad. in italiano mia.
[7] in rete all’indirizzo http://www.bibliotecamarxista.org/marx/Lettera%20%20a%20%20Meyer%20e%20Vogt.htm
https://www.lacittafutura.it/editoriali/il-razzismo-malattia-permanente-del-capitalismo