Le autostrade che crollano e le macerie del neo-liberismo italiano.

A proposito delle nazionalizzazioni

MILANO. L’analisi marxista della società e del sistema di produzione borghese considera l’intervento dello Stato nell’economia non una frattura nelle leggi fondamentali dell’economia capitalistica, ma l’inevitabile conseguenza del suo sviluppo storico (imperialismo) dato che si arriva alla negazione della proprietà privata individuale dei mezzi di produzione potenziando il fattore fondamentale del sistema di produzione capitalistico, ovvero lo sfruttamento del lavoro umano attraverso l’appropriazione del plusvalore.

Con le sole nazionalizzazioni, dunque, non si sopprime né il mercato né lo sfruttamento del lavoro (alias una gestione privatistica, quindi clientelare) ma si garantisce il salvataggio di unità economiche deficitarie e un lauto profitto ai capitali in uscita. Soffermandoci ai rapporti inter-imperialistici, la nazionalizzazione rappresenta l’evidenza della tensione di tutte le forze economiche nazionali, preparando gli urti sul terreno della forza. E nel terreno delle lotte di classe, rappresenta un raffinato metodo di immobilizzazione delle energie attive del proletariato.

Le nazionalizzazioni, poi, hanno storicamente messo a disposizione dei “partiti della ricostruzione” (anche da una prima a una seconda e a una terza repubblica) un potente strumento di manovra e di controllo, sia per le continue lotte di concorrenza fra di loro (e fra i capitali nazionali e quelli esteri), sia per la prolungata e martellante pressione economica e politica sul proletariato. Se analizziamo ciò che è avvenuto anche fuori il nostro paese, ad es. in Francia, la storia delle nazionalizzazioni ha dimostrato come i diversi partiti succedutisi al governo abbiano modellato a loro immagine le industrie nazionalizzate, costituendo una vastissima clientela rappresentata da medio e piccoli borghesi inseriti nella nuova gigantesca burocrazia di Stato e da funzionari sindacali che le nazionalizzazioni hanno inquadrato nel meccanismo statale. Così le nazionalizzazioni s’inseriscono nel processo di rinnovamento della società capitalistica che tende a legare a doppio filo allo Stato le organizzazioni sindacali operaie e cerca di riassorbire nell’apparato produttivo e amministrativo borghese gli strati socialmente e politicamente fluttuanti dei ceti medi.

Il crollo del ponte Morandi di Genova sul piano economico è, dunque, di agile lettura. Il processo di privatizzazione che ha coinvolto autostrade è stato bipartisan, avviato dal centro-sinistra di Prodi e di D’Alema, auspice l’aristocrazia intellettuale della borghesia liberale. In barba alla sbandierata ideologia delle liberalizzazioni (l’unica mira reale era quella del mercato del lavoro), di una “nuova” politica industriale, della parificazione dei punti di partenza – cioè di quel solo egualitarismo che a parole il centro-sinistra diceva di voler favorire come propria precipua caratteristica appunto di “sinistra” – in barba a tutto ciò si è venuto di fatto a regalare un monopolio ad un privato che, inevitabilmente, ricerca nella politica una leva indispensabile della propria posizione di vantaggio. Monopolio che ha poi di fatto trovato anche con il centro-destra italiano un terreno di convergenza. E non poteva essere altrimenti, poiché del monopolio politico-imprenditoriale il centro-destra italiano è, per vocazione originaria, una delle massime espressioni mondiali (ci si riferisce al comparto televisivo di Berlusconi, se non fosse chiaro). Gli imbarazzi che oggi la Lega palesa di fronte all’eventualità della nazionalizzazione della gestione delle autostrade, dunque, non possono sorprendere, visto che la Lega è sempre stata parte organica dell’alleanza costruita da Forza Italia.

Sul piano generale, quanto avvenuto con autostrade rende insomma evidente una volta di più il fallimento di quello che ci è stato a lungo presentato come il “nuovo” liberalismo italiano, sia di destra sia di sinistra. Il motivo? In poche parole: perché in questo nuovo liberalismo lo Stato avrebbe dovuto porsi l’obiettivo di perseguire gli interessi generali e non solo quelli di una parte, come nel “vecchio” liberalismo ottocentesco. E quando avrebbe inevitabilmente perseguito, per raggiungere i primi, anche i secondi, avrebbe dovuto farlo in modo trasparente, pubblico, per rendere decifrabile come i secondi siano anche uno strumento per i primi (l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, dice la Costituzione) e per rendere possibile il controllo attento della pubblica opinione. E ancora una volta, questa astrazione sulla presunta neutralità dello Stato, già smascherata a suo tempo da Marx ed Engels, si è rivelata tale. E, infatti, nel “nuovo” liberalismo si secretano le convenzioni coi privati come nel “vecchio” si faceva coi trattati internazionali. Tutta la gran polemica contro lo Stato italiano che viene mossa da chi ha governato fino all’altro ieri, quindi, – i lamenti sulla burocrazia, sulle carenze dello “Stato regolatore”, che si vuole strenuamente difendere contro il possibile ritorno dello “Stato imprenditore” ecc. – appare davvero comica, se non tragica: perché lo Stato sono stati loro.

Dunque, la nazionalizzazione che si prefigura si inquadra in un processo di crisi di accumulazione e, perciò, dello sfruttamento del lavoro umano. Si realizzerebbe, infatti, in Paesi a forte tendenza nazionalistica e rappresenta la preparazione a nuovi conati imperialistici. In economie capitalistiche nella fase imperialistica, infatti, la lotta di concorrenza non è annullata sul terreno nazionale, anzi è acuita sul terreno internazionale. Le nazionalizzazioni, dunque, servono ancora per presidiare i posti di controllo e di comando delle singole economie “nazionali”. Per tanto, lo sforzo che le forze progressiste dovrebbero fare è appunto quello di cominciare a ricostruire rapporti di forza capaci di porre all’ordine del giorno una nazionalizzazione finalmente a vantaggio della comunità tutta. Non farlo, significa invece contribuire a spingere ulteriormente il Paese giù dalla china.

https://www.lacittafutura.it/interni/a-proposito-delle-nazionalizzazioni

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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