Il degrado dell’educazione superiore e della ricerca non incontra un’opposizione efficace.
Il ministro dell’Istruzione, non più pubblica [1], Marco Bussetti, laureato in Scienze motorie, è un sostenitore della politica anti-sbarchi di Salvini, ma non trova questo atteggiamento in contraddizione con la politica di inclusione che sarebbe attuata dal suo ministero (v. intervista al Corriere della Sera). Misteri della logica o della sua assenza.
Negli ultimi mesi si sono susseguiti gli incontri tra i rappresentanti del ministero e le organizzazioni sindacali del comparto, che però si sono presentate separatamente e non come “tavolo unitario” come avvenuto in precedenza. Nello specifico, la Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC-CGIL) ha incontrato il 26 luglio scorso il sottosegretario Lorenzo Fioramonti (Movimento 5 stelle) “in un clima cordiale”, nel corso del quale ha fatto presenti gli antichi problemi dell’università a partire dalla svolta controriformistica degli ultimi decenni: l’immutabile scarsità dei finanziamenti, la situazione del precariato dilagante in attesa di una necessaria stabilizzazione, la riforma del pre-ruolo, che preveda un percorso tutelato e con autentici sbocchi lavorativi nelle università e negli enti di ricerca, il grave problema del diritto allo studio con relativi finanziamenti, la rivalutazione del ruolo del Consiglio universitario nazionale (CUN). Ci sarebbe da aggiungere la fatiscenza degli edifici non restaurati da decenni, del mobilio, la vecchiezza delle attrezzature, la scarsità del personale a tutti i livelli (dai tecnico-amministrativi agli addetti alle pulizie ormai organizzati in cooperative per pochi spiccioli).
Nel corso dell’incontro è stata ripresentata la vecchia richiesta di 20.000 nuovi posti nella ricerca e nella docenza, indispensabile se le parole “innovazione”, “eccellenza”, “originalità” non costituiscono lettera morta, come invece io credo. Da notare che gli altri paesi avanzati, a partire dalla grande crisi, hanno fatto una politica inversa, finanziando le istituzioni dell’educazione e della ricerca nell’ottica della competizione internazionale. Non seguendo questo principio, che dovrebbe essere loro congeniale, le nostre classi dirigenti mostrano di aver accettato pienamente, nonostante le sfide e le minacce di personaggi come Salvini, il ridimensionamento del ruolo politico e culturale dell’Italia. D’altra parte, per constatare che questo paese non conti nulla, basta tenere conto della sua non partecipazione ai vertici importanti o al fatto che, riguardo alla questione dei migranti, nessuno si è scomodato ad intervenire.
Tornando all’incontro “cordiale” con Fioramonti, nel comunicato della FLC si può leggere: “Si è trattato… di un primo incontro in cui abbiamo registrato delle convergenze e la disponibilità del sottosegretario a proseguire il confronto sulle questioni che abbiamo illustrato”. In conclusione, un nulla di fatto, anche perché a parte qualche presidio di ricercatori precari degli enti di ricerca le altre istituzioni, e soprattutto i docenti, tacciono, limitandosi a scioperi che non sono tali. Anzi, è il caso di dire che proprio i docenti o i dirigenti della ricerca, con la loro ideologia di essere “servitori dello Stato”, che deve sempre funzionare per gli studenti e i cittadini, bloccano qualsiasi forma di protesta e con essa qualsiasi possibilità di cambiamento.
Non saranno certo gli incontri più o meno cordiali con il ministero che cambieranno la situazione drammatica da cui deriva il nostro continuo arretramento economico, sociale, politico, culturale; ci vogliono le mobilitazioni dei lavoratori tutti (ma i prof non si considerano tali) e degli studenti. E nemmeno le mobilitazioni garantiscono il successo. Se con governi democristiani e di centro-sinistra la politica della concertazione poteva avere un qualche senso, ormai costituisce solo una perdita di tempo, portata avanti da élite prive di combattività e di fantasia, e soprattutto desiderose di non collocare il problema dell’università nella crisi sistemica e complessiva del tardo capitalismo.
Anche l’Associazione nazionale docenti universitaria (ANDU), cui appartengo, ha incontrato il 24 luglio Fioramonti, presentando le nostre proposte, sicuramente più radicali di quelle della FLC, tra le quali ricordo: bando di almeno 20.000 posti di docenti di terza fascia [2] (ripristino del ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato), la cancellazione di tutte le figure precarie, introduzione di un solo contratto pre-ruolo, la proroga di tutti gli attuali precari fino all’espletamento dei 20.000 concorsi. Naturalmente l’ANDU non ha mancato di ricordare il problema del diritto allo studio (non tutti i meritevoli ricevono la borsa per studiare), la lotta contro il nepotismo, auspicando la trasformazione di tutte le prove concorsuali in nazionali, la questione centrale della rappresentanza democratica del Sistema nazionale universitario, che comporta inevitabilmente l’abolizione dell’Agenzia Valutazione Università e Ricerca (ANVUR), il ridimensionamento della Conferenza Rettori Università Italiane (CRUI), che costituisce solo un’associazione privata, la costituzione di un organo nazionale di autogoverno. Altri problemi evidenziati dall’ANDU sono l’amministrazione democratica degli atenei, possibile solo con l’abolizione della figura del rettore-padrone e l’attribuzione di un ruolo centrale al Senato accademico nella gestione degli atenei, la necessità di abbandonare la logica distruttiva dell’eccellenza (dipartimenti eccellenti, cattedre Natta, atenei “virtuosi”), che ha la funzione di distribuire i fondi ai “migliori” (per chi?). Tale abbandono dovrebbe avvenire, a mio parere, in nome del principio della collaborazione, che sta a fondamento della stessa ricerca scientifica sin dai suoi primordi.
Dopo aver dato queste notizie estive, andiamo a consultare qualche dato sull’università e poi a vedere cosa c’è scritto sullo stesso tema nel famoso contratto di governo, siglato da Di Maio e Salvini, sperando di ricavare qualcosa di più concreto. Quanto al primo punto, secondo ciò che si ricava dalla Fondazione Res (2016), i dati sarebbero inquietanti: in meno di dieci anni gli immatricolati sono calati del 20% circa, i docenti perdono circa 11.000 unità, il personale tecnico-amministrativo passa da 72.000 a 59.000 lavoratori; allo stesso tempo, il numero dei corsi di studio diminuisce (da 5.634 a 4.628) e il Fondo di finanziamento ordinario è calato, in termini reali, del 22,5%. Nonostante le tante chiacchiere sulla “società della conoscenza”, questi elementi ci collocano tra gli ultimi nell’Europa a 28 per il numero dei laureati; nel 2013 erano il 22,4%. Ovviamente il calo è stato più sensibile nel Mezzogiorno e tra le famiglie operaie (v. inchiesta di Repubblica). E la cura di dimagramento non è finita, giacché si stanno attuando ulteriori accorpamenti di dipartimenti con l’inevitabile perdita di specificità disciplinari.
Vediamo ora cosa dice a proposito dell’università il tanto discusso contratto di governo, composto di 58 pagine divise in trenta capitoli, e sottoposto all’approvazione dei grillini e dei legisti. Il capitolo 30 (pag. 55) è dedicato a Università e ricerca e qui si legge a proposito della questione finanziamento: “È prioritario incrementare le risorse destinate all’università e agli Enti di Ricerca e ridefinire i criteri di finanziamento delle stesse”. E come ciò dovrebbe avvenire? “Attraverso una costante sinergia con la Banca per gli investimenti – proposta dal nuovo governo – saremo in grado di assicurare maggiori fondi per incrementare il nostro livello di innovazione, rendendoli efficaci ed eliminando gli sprechi” [3]. In particolare, il governo intende avvalersi dello “strumento delle partnership pubblico-private”, che a suo parere garantirà maggiori fondi alla ricerca. Infine, dopo l’inevitabile accenno alla ricerca di base, non poteva mancare il richiamo alla necessità che le università e i centri di ricerca contribuiscano “a rendere il sistema produttivo italiano maggiormente competitivo e propenso alla valorizzazione delle attività ad alto valore tecnologico” (pag. 55). Come richiesto dalla Treelle, grande importanza viene attribuita alle lauree professionalizzanti collegate agli Istituti Tecnici Superiori, e ciò – come è già stato detto in altre occasioni – per favorire i bisogni delle piccole e medie imprese, che non sanno nemmeno cosa sia la ricerca (pag. 56).
Troviamo poi un bel parlare di lotta al baronato, di meritocrazia, che garantisca l’accesso all’università e la progressione di carriera, di ricambio generazionale, ma non è menzionata una misura concreta, come per esempio il reclutamento straordinario di 20.000 docenti o l’istituzione del ruolo docente unico, che eviterebbe la gerarchia medioevale che ancora regge il sistema universitario e che fu bersaglio delle proteste sessantottine. Insomma, tutte chiacchiere di politicanti senza idee e senza un reale potere, ma pericolose perché con la loro vaghezza protestataria attraggono i più colpiti dalla crisi.
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