Forse tutto sarà a posto per pulizia e nettezza degli ambienti, ma non tutto sembra funzionare se si guarda all’organizzazione complessiva della scuola della Repubblica: mancano insegnanti di sostegno, le graduatorie sono confuse, molteplici; gli insegnanti vengono assegnati a più plessi, magari lontani fra loro…
Insomma, della vecchia, borghesissima scuola di De Amicis nemmeno l’ombra. Ma neppure l’ombra della vecchia scuola democristiana della Falcucci, quando ancora troneggiava a Palazzo Chigi Amintore Fanfani o, più semplicemente, di quella già riformata di Luigi Berlinguer, prima dell’avvento della “seconda repubblica”, prima dell’arrivo dell’idea manageriale calata sulle presidenze, sui dipendenti tutti e nei crani più o meno pieni di coloro che dovrebbero acquisire il sapere.
In trent’anni di liberismo sfrenato, rappresentato a più riprese da centrodestra, centrosinistra e oggi dal governo giallo-verde ammantatosi di forme di comunicazione oggettivamente differenti da quelle precedenti, la scuola pubblica è stata ridimensionata nel suo ruolo e ha assunto le sembianze di una succursale dell’industrialismo e della finanziarizzazione: ogni riforma attuata ha messo in campo l’esigenze primaria non dello studio finalizzato alla conoscenza e alla formazione di persone in grado di pensare (magari) criticamente, ma ha costruito l’imprescindibile necessità di mettere la “competizione” al centro dell’agire dello Stato nei confronti della sua scuola e, quindi, ha inserito in tutti i particolari elementi costitutivi di essa questa (il)logica propensione a considerarsi formativa soltanto per lo sfornamento di elementi da impiegare nel miglior sfruttamento possibile della nuova forza-lavoro moderna.
La preparazione degli studenti alla vita da cittadino, al lavoro, ad un futuro che li possa definire come tali, è quanto di più lontano oggi si possa trovare nella scuola pubblica italiana.
Del resto, la situazione non è migliore per il corpo docente e nemmeno per bidelli e assistenti scolastici. Tutto ruota attorno ad una mobilità permanente, ad una incertezza che è il dato costante di ogni attività lavorativa dell’oggi, presentata in tanti lustri passati come la vera modernità del progresso sociale, come il fondamento di una nuova florida economia del Paese.
La favola è vecchia, ma non per questo dovrebbe essere anche cattiva. Invece è vecchia, cattiva e ingannatrice per questo. Dunque è una “favola” nel senso più deteriore del termine, eppure molti la accettano ancora come il “minor male possibile” pur lamentandosi ora per la mancanza delle carta igienica nei bagni, ora per il caro-libri, ora per la precaria condizione degli edifici e, infine, per la scarsa qualità dell’istruzione che ne viene fuori.
Parafrasando Marx, per far emancipare la scuola pubblica occorre che questa abolisca la sua condizione di esistenza attuale, si superi praticamente, ad iniziare dalla concezione che si ha della scuola e che è diventata, nel giro di pochi decenni, una forma mentispraticamente accettata come ultima evoluzione del processo di costruzione della formazione individuale e sociale dei cittadini nella Repubblica.
Venticinque anni fa, quando ero studente all’Università di Genova, forse con l’aiuto di una società che ancora forniva degli spunti utili in tal senso e ti pungolava per consentirti di ragionare criticamente (quindi di esercitare la meravigliosa arte del dubbio), a me la domanda venne: ma voglio studiare, imparare, conoscere per trovare un lavoro o per studiare, imparare e semplicemente conoscere?
Studiare per studiare, imparare per imparare, conoscere solo per conoscere e non per finire a spazzare le foglie morte degli alberi ai bordi delle strade nelle fredde giornate invernali o in quelle afose estive. Nessuno dovrebbe mai sprecare la sua giovinezza per permettere al sistema economico di ridurlo un pensatore finito, terminato nella sua evoluzione critica con un lavoro che gli consente di vivere ma che lo annienta, lo annulla nell’esercizio fantastico del domandarsi continuamente come migliorare sé stesso nel miglioramento comune.
La scuola “di classe” non la si scopre certo oggi e qui, ma anche nella più rigida espressione dei valori della borghesia imprenditoriale degli ultimi decenni del ‘900, c’era da parte dei governi del Pentapartito una tolleranza rispetto alla molteplice espressione culturale degli insegnanti e degli studenti nella scuola pubblica.
Le rivolte studentesche venivano contenute e represse quando diventavano un esempio politico e sociale che poteva destabilizzare il quadro economico e le politiche di un governo che le rappresentava, ma la libertà di immaginarsi e di immaginare il mondo come un luogo dove poter esercitare un libero ruolo, una ribellione tutta propria o comune per provare a modificare le cose esistenti, questa libertà era tollerata da un capitalismo non liberista come quello degli ultimi trent’anni, vorace, bulimico, divoratore di ogni spazio per esercizi di libera associazione del pensiero.
Quasi una auto-psicoanalisi critica che, senza accorgercene, abbiamo sottoposto a noi stessi nel momento in cui potevamo scegliere liberamente cosa e quando studiare: ossia quando ci siamo ritrovati all’università.
Poi le dinamiche economiche sono cambiate, quelle sociali ne hanno seguito ovviamente il passo, la gente ha votato come hanno richiesto i grandi comunicatori di massa al soldo dei grandi speculatori e capitalisti, ed è così che il mercato ha occupato un altro spazio per sfruttare ancora meglio il lavoro giovanile: ha costretto i ragazzi e le ragazze a diventare nuovi schiavi, ridotti ad indossare una cuffietta, digitare su una tastiera e rispondere al telefono a centomila persone con problemi di connessione internettiana, con telefoni mal funzionanti, con contratti di luce, gas e acqua.
Quei giovani hanno trascorso la loro più bella età a studiare per trovare un lavoro e, al contempo, a lavorare per quattro spiccioli al giorno per poter studiare.
Questa sarebbe la vostra grande civiltà? Questo sarebbe il grado di educazione e scolarizzazione pubblica di una nazione civile e progredita?
Ai giovani che per la prima volta iniziano la scuola in questi giorni, a quelli che la ricominciano, faccio un augurio dal profondo del cuore: studiate per voi stessi, per provare a capire, per alimentare una passione, per conoscere e non per trovare un lavoro.
Quello lo troverete, purtroppo, a prescindere dal vostro grado e livello di studio.
Nella disgrazia di un futuro completamente insicuro, studiate per arricchire i vostri dubbi, per alimentare le incertezze e non per trovare delle sicurezze. Non date mai nulla per scontato, non considerate mai un ordine qualcosa di irrevocabile, di necessariamente assimilabile senza un minimo e giusto atto di ribellione. Non di strafottenza o di banale irrisione dell’”autorità”. L’autorità ci pensa già da sola a mostrarsi mediocre nel suo esserlo per natura.
Non datele altra importanza in tal senso.
Buon studio, buoni dubbi, ma soprattutto buona passione per la conoscenza.

MARCO SFERINI

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/studiate-per-voi-stessi-non-per-chi-vi-vuole-sfruttare/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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