Uno dei luoghi comuni più duri a morire nella trattazione dell’annoso “problema” del debito pubblico italiano è quello secondo cui noi abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi. Con l’argomentazione implicita che gli altri paesi siano stati più rigorosi, efficienti, meno spendaccioni, con meno evasione fiscale. Questa argomentazione può fare breccia in molti strati della popolazione, ognuno con il proprio bersaglio preferito. L’idraulico evasore per i dipendenti, il dipendente pubblico per il padroncino, la generale e antropologica tendenza alla furbizia dell’italiano per tutti gli italiani (che quando commentano i vizi altrui magicamente non si considerano più italiani ma austeri calvinisti nordici). La realtà è che si tratta appunto di un luogo comune. Senza negare le basi reali di talune argomentazioni (d’altronde è fisiologico che in un paese più arretrato economicamente, come l’Italia è stata in tutto il periodo da XVII al XX secolo, vi sia una tendenza maggiore a economia informale/spesa clientelare) il tema è trattato in modo moralistico, eccessivo, e soprattutto finalizzato a implementare “riforme” di spending review ed “efficienza” destinate all’ esclusivo beneficio del capitale internazionale e del grande capitale italiano ad esso ancorato (ove esistente). Al contrario la maggior parte della popolazione viene penalizzata con un peggioramento dei servizi sociali (e ricordiamoci che abbiamo una sanità e un istruzione pubblica fra le migliori del mondo), un arretramento dei diritti delle classi lavoratrici, una distruzione del tessuto autonomo artigianale/piccolo industriale del paese e una riduzione cospicua del risparmio privato diffuso, risultato del modello di sviluppo italiano e dei suoi pregi (se è corretto sottolinearne i limiti esistono delle specificità positive di non minore importanza, soprattutto tenendo conto del punto da cui partivamo). Per provare a smontare questo luogo comune andremo insieme ad analizzare l’evoluzione del rapporto Debito/PIL italiano e di alcuni grandi paesi industrializzati dell’Occidente (USA, Germania, Francia, Spagna) cercando di capire insieme quando (e se) si sia creato il divario tra questi ultimi e l’Italia per quanto riguarda il peso di quel rapporto e ipotizzando anche delle spiegazioni in merito (i dati vanno collocati in una prospettiva storico/sociale/economica non usati, per di più in modo selettivo, per fare del facile moralismo).

Grafico 1: Evoluzione del rapporto Debito / PIL nei paesi campione (variazione percentuale su rilevazione precedente) Partiamo dal 1955. La guerra è finita da 10 anni, il mondo è diviso in due tra blocco sovietico e blocco capitalista e la crescita economica riprende. L’Italia è un paese ancora largamente agricolo, con una forte presenza industriale nel triangolo Nord ovest ma amplissime zone arretrate, non solo nel meridione. E’ un paese di emigrazione, continentale e intercontinentale. Se guardate qualche film dell’epoca il divario tra noi (o la Spagna franchista) e Francia/Germania/Stati Uniti è quello di due mondi diversi. Premessa fondamentale per capire ciò che viene dopo, anche in termini di debito. I rapporti debito PIL nel 1955 (dati FMI recuperabili qui) sono i seguenti: Italia: 33,89% Spagna: 23,72% Francia: 33,27% Germania: 21,41% Usa: 66.08% Notiamo subito come la Germania parta con un rapporto debito PIL di un terzo inferiore al nostro dovuto all’accordo del 1953 con cui il suo debito estero venne dimezzato e dilazionato per un periodo di 30 anni, con le riparazioni di guerra congelate fino alla riunificazione tedesca e successivamente cancellate in larghissima parte. Sono stati quindi i rigorosi, austeri e moralmente ineccepibili vicini germanici ad avere “barato” o, se si preferisce, beneficiato della paura americana di una Germania che cadesse in orbita filosovietica. Nello stesso 1955 USA hanno un debito/PIL molto più alto dovuto al keynesismo di guerra che gli consentirà, per tutto il trentennio 45/75, di essere la fabbrica del mondo diffondendo la scintillante american way of life nel resto dei paesi occidentali. In questo caso “debito” non significa certo crisi, anzi il debito è una delle componenti chiave della capacità di attrarre nell’ orbita politica economica e militare degli Stati Uniti regioni chiave del mondo. Facciamo un balzo avanti ed andiamo al 1966. L’Italia di quel periodo è un paese abbastanza diverso da quello di soli 10 anni prima. C’è stato il miracolo economico, una industrializzazione di massa ancora concentrata nel triangolo economico ma che comincia a diffondersi altrove. Si costruiscono le infrastrutture di base del paese, autostrade soprattutto, si nazionalizza l’industria elettrica e vengono posti in essere piani per la casa e un abbozzo di sistema sociale. Nasce la scuola media unica, si diffonde un relativo benessere. Tutto questo, nonostante il fortissimo incremento del PIL ha chiaramente un costo, ma è la base dello sviluppo italiano, della nostra crescita, del miglioramento delle condizioni materiali e sociali di milioni di persone. Andiamo quindi a vedere i rapporti: Italia: 33,4% (-1,46%) Spagna:10,95% (-53,83%) Francia: 15,31% (-53,98%) Germania: 19,8% (-7,35%) USA: 40,53% (-39.7%) Quello che notiamo immediatamente è come il rapporto debito/PIL italiano rimanga uguale mentre Francia e Spagna scendono del 50% o più, gli USA del 40% circa e la Germania stessa del 7% (si veda il grafico 1). Ma noi in quel periodo gettiamo, come abbiamo detto sopra, le fondamenta della nostra prosperità. La Spagna rimane arretrata e contadina e usa la crescita gestita dalla tecnocrazia opus dei, che si sostituisce a falangisti e carlisti all’interno del sistema franchista, per una piccolissima minoranza della popolazione. Gli USA beneficiano dell’essere decenni avanti a tutti, del maxi debito pregresso e di non avere costi di ricostruzione mentre la Francia rimane Parigi centrica (e oggi, coi gilets jaunes lo vediamo). Chi spende meno o ha speso prima (gli USA) o rimane indietro (la Spagna) o, come la Francia, stava già molto meglio dell’Italia e non ha bisogno di fare quel balzo notevole per passare da una società contadina a una industriale (decidendo che Parigi, oltre a valere una messa, tutto sommato basta). Prima di salire nuovamente a bordo della nostra macchina del tempo per arrivare a metà anni ’70 notiamo quindi una cosa fondamentale. In rapporto al Prodotto Interno Lordo (che è l’ oggetto della nostra analisi) il debito italiano nel 1966 è già il doppio di quello francese, il triplo di quello spagnolo e il 50% più alto di quello tedesco (gli USA di quegli anni sono storia a parte, possono fare davvero di tutto: sono, come abbiamo detto, la fabbrica del mondo). Il dislivello si crea qui, non negli anni ’80. Non per qualche moralistica ragione di spreco, spesa pubblica clientelare o evasione (che, volendo provocare, è comunque reddito che rimane in circolo) ma per creare le basi dell’Italia come nazione industriale e dello stato sociale (quello che ha consentito ai nostri genitori e nonni di studiare, curarsi, mettere da parte i risparmi). Per creare il benessere che ci consente di non essere poveri. Non è esagerato dire che godiamo ancora il “dividendo” del debito pubblico di quegli anni sotto forma di quel che resta del benessere dei nostri padri. Arriviamo quindi a metà degli 70, precisamente prendiamo il 1977 come anno di controllo. In Italia la situazione è caldissima politicamente, il PCI è arrivato (nel ’76) ad un soffio dalla DC, c’è il terrorismo di varie matrici ideologiche, c’è stato il referendum sul divorzio. Insomma una società più ricca, più moderna ma anche più lacerata. Sul versante macroeconomico è il periodo chiave da cui discende il modello odierno. C’è la crisi della crescita partita nel dopoguerra e l’inflazione da petrolio a seguito dell’embargo OPEC dichiarato in conseguenza della guerra dello Yom Kippur 1973. Registriamo in questo periodo il picco del rapporto salari/profitti (che si assesta attorno al 51% in Italia). Non sarà mai più così; partirà invece la restaurazione del paradigma liberale, la crisi ideologica della sinistra, il recupero dei profitti a danno dei salari, del mercato contro lo stato e del rigore economico deflazionista contro le logiche keynesiane. Ma torniamo ai nostri dati: Italia: 55,2% (+65%) Spagna: 15,33% (+40%) Francia: 14,99% (- 2.09) Germania: 27% (+26,6%) USA: 34,77% (-14,21%) Prosegue la crescita del debito italiano in rapporto superiore agli altri Stati. Ma rispetto a 10 anni prima anche Spagna (appena uscita dal franchismo) e Germania incominciano ad aumentare il debito. Quel +65% italiano va spiegato anche con le ragioni politiche che abbiamo indicato sopra. Se la Germania imposta il suo welfare socialdemocratico e la Spagna comincia a spendere preparandosi all’uscita dal franchismo l’Italia è il paese chiave per la tenuta del blocco occidentale, dove i comunisti arrivano a lambire la DC e con lo scontro sociale più duro dal ’69 in poi. Non era realisticamente possibile una politica di austerità volendo mantenere il controllo politico. Come al solito le spiegazioni politiche/economiche sono più complesse del moralismo liberale d’accatto. Continua il periodo d’ oro degli USA che riducono il debito crescendo, godendosi gli ultimi frutti del vantaggio sistemico sul resto del mondo, mentre la Francia post gollista, in cui il ’68 è stata fiammata romantica da intellettuali salottieri, può tranquillamente proseguire con bassa spesa nel framework conservatore. Spostiamoci ora al 1993. Qui il salto temporale è cospicuo, ma non arbitrario. Ci consente di passare dal momento della crisi del modello keynesiano a quello della fine della prima Repubblica (con temporanea uscita italiana dallo SME, appunto nel 1992), superando tutti gli anni ’80, quelli del craxismo rampante, della “Milano da bere” del riflusso ideologico verso privato e consumismo. Di solito sono gli anni indicati dagli “austeri” (ovviamente a spese altrui) liberali e calvinisti come quelli in cui “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”. Forse più importante della patina glamuor anni ’80 è però, per quanto ci interessa, ricordare la separazione fra Tesoro e Banca d’ Italia del 1981, vero pilastro ideologico e pratico di tutte le politiche susseguitesi fino ad oggi: taglio e poi abolizione della scala mobile, la pesantissima finanziaria Amato (1992), il nuovo Testo Unico Bancario (1993) che distrugge totalmente la riforma Beneduce del 1936, impostata fra separazione fra banche d’ affari e commerciali e sul ruolo chiave delle banche pubbliche all’ interno di una prospettiva di sviluppo sistematica (più usata poi nel dopoguerra che non dal fascismo nel cui contesto vide la luce). Italia: 115.66 (+109,5%) Spagna: 54,77 (+257,27%) Francia: 46,30 (+208.87%) Germania: 45,12 (+67,11%) USA: 70,19 (+87,39%) Considerando i dati sopra indicati notiamo come, per quanto innegabile il nettissimo aumento del rapporto debito/Pil italiano del periodo, Francia e Spagna facciano decisamente peggio andando a recuperare quanto non speso in precedenza. Anche qui la politica ci viene in soccorso. La Francia miterrandiana deve, abbandonate in fretta le velleità socialiste, effettuare quella spesa pubblica che nel periodo gollista precedente era stata negletta. Stesso discorso per gli spagnoli in uscita dal franchismo con i governi socialisti di Gonzalez. Anche il debito/PIL tedesco cresce, sebbene meno, e gli USA, causa i tagli alle tasse reaganiani, assistono alla fine dell’ eccezionalismo precedente andando ad aumentare il debito PIL del 90% rispetto a 15 anni prima. La costante che troviamo, lato spesa sociale o trickle down economy a stelle e strisce, è un aumento del debito quasi ovunque, collegata a ragioni economico/politiche molto più solide del “vivere al di sopra delle proprie possibilità”: sviluppo economico, consenso politico, ricerca di quella crescita/benessere diffuso necessario per le classi dominanti a uscire dalla crisi dei 70 e a proporre quello occidentale come modello “vincente” nei confronti del comunismo sovietico. Un discorso quindi molto più complesso dell’”inefficienza” e dello “spreco” tanto cari ai liberali. Tanto è vero che quell’aumento coinvolge anche il Reagan dello stato minimo (naturalmente fare spesa pubblica o tagliare le tasse ai ceti più alti è ben diverso negli effetti, ma ai fini del rapporto debito/PIL equivalente). Se prima abbiamo fatto un salto di circa 15 anni, ora invece prendiamo la macchina del tempo per poche fermate. Andiamo nel 2000, anno fondamentale e non certo per prospettive millenariste. L’introduzione dell’euro sui mercati finanziari avviene nel 1999, nel 2002 come effettiva circolazione monetaria. Il 2000 è anche l’anno in cui scoppia la bolla della new economy e quindi finiscono, non solo da calendario, i roaring 90’s clintoniani, gli anni della “terza via”. In Italia l’ europeismo occupa quasi completamente la scena del dibattito. Se eravamo rimasti all’inizio del decennio con l’uscita dallo Sme (nel 1992) e un debito pubblico molto alto, gli anni ’90 sono quelli in cui imbocchiamo la strada del rigore economico, delle privatizzazioni, della riforma Dini, che abbatte la spesa pensionistica con il graduale passaggio al sistema contributivo. Il disperato desiderio di ben figurare “in Europa”, mostrandoci “alunni volenterosi” con le autorità di Bruxelles ci porta a svendere il nostro patrimonio industriale, a tagliare i diritti sociali e ad inanellare avanzi primari per entrare in un sistema in cui saremo, nella sostanza, schiavi. Non c’è che dire: notevole lungimiranza. Ma passiamo ai dati: Italia: 105,11 (-12,20%) Spagna: 57,96 (+5,82%) Francia: 58,65 (+26,67%) Germania: 58,76 (+30,23%) USA: 53,03 (- 24,44%) Quello che possiamo notare è che, crollata l’URSS, le ragioni prettamente politiche e di consenso che avevano contraddistinto gli anni precedenti vengono meno. E di conseguenza il debito/Pil cresce meno (Francia, Spagna, Germania) o addirittura diminuisce (Italia/USA). Certamente sono anni di buono sviluppo economico che contribuisce sicuramente a tenere sotto controllo il rapporto, ma molto più importante è il lato politico. Se negli anni ’80 quel surplus sarebbe stato speso per abbassare tasse o fornire servizi, pur in un’ottica di piena restaurazione liberista strutturale, nei ’90 le classi dirigenti si possono permettere il lusso di cominciare la narrazione rigorista. D’altronde non c’è più nessuna alternativa da temere. E l’Italia è uno dei paesi in cui questa narrazione/prassi viene più intensamente promossa e realizzata. Nello stesso tempo la Francia continua la linea miterrandiana di “europeismo liberale” senza però cercare di scontentare troppo la popolazione o distruggersi il sistema industriale, mentre la Germania è alle prese con i costi della riunificazione. E arriviamo, così, al 2008, l’anno della crisi più grande dalla depressione del 29. L’anno che cambierà tutto o meglio l’anno in cui i nodi dello sviluppo squilibrato dagli anni ’70 cominciano a venire al pettine con la crisi bancaria e le successive politiche di austerità. Gli anni della moneta unica. Ma per quanto ci interessa il periodo 2000/2008 è un periodo ancora di crescita ragionevole, durante il quale continua la tendenza descritta per gli anni ’90 (meno in Italia in quanto Berlusconi, conscio della propria debolezza tra i poteri forti, riesce paradossalmente a implementare meno il modello liberale rispetto a un’ ex sinistra ormai convertita ai dogmi tecnocratici). Italia 102,39 (-2,72%) Spagna 39,40 (-32,02%) Francia 68,06 (+16,04%) Germania 64,93 (+10,50%) USA 72,85 (+ 37,37%) Continua quindi il rigore italico, sebbene in forma minore. La Spagna beneficia della fortissima crescita spinta del boom immobiliare inanellando surplus (che pagherà dopo, sia come conti che come disoccupazione strutturalmente alta, non avendo investito in forme più labour intensive e stabili di crescita) mentre la Francia prosegue (anche se meno dei ’90) nell’aumento del rapporto debito PIL (e questa impossibilità di imporre l’austerità ed il rigore ai francesi da inizio anni ’80 è un tema che dovremmo tenere ben presente nelle nostre analisi odierne). La Germania sta ancora smaltendo la riunificazione ma il ritmo di crescita di debito/Pil diminuisce. L’ “agenda Schroeder” e il “dividendo dell’ euro” (nel loro caso assolutamente reale) consentono di cominciare a sistemare la situazione e porre le basi per il trionfo seguente. Trionfo che si realizza a spese degli altri paesi dell’euro area e della propria classe lavoratrice. Gli USA, infine, vedono nuovamente peggiorare il proprio rapporto debito PIL, causa spese “imperiali” e ripresa del trickle down da parte di Bush jr. Anche qui il debito che cresce ha delle chiare ragioni politiche, così come, al contrario la riduzione dello stesso porta dei costi non indifferenti per Italia e Spagna. Noi arriviamo alla crisi con un’economia fragile e bancocentrica. Loro dietro lo scintillio di quei numeri che combinano fortissima crescita e abbattimento PIL (il sogno di ogni economista liberale) promuovono un sistema che strutturalmente prevede ampia disoccupazione anche in forte crescita e credito facile per l’immobiliare. Eccoci, quindi, giunti praticamente ai giorni nostri (gli ultimi dati della tabella FMI sono del 2015). La storia la conosciamo tutti, a questo punto: crisi bancaria nel 2008, il “salvatore” Monti che ci regala la seconda recessione 2012/2013 dopo quella, già brutale, del 2009. L’austerità come dogma mariano. Inutile dilungarci su qualcosa che è più cronaca che storia e passiamo ai numeri: Italia 132,71 (+29,61%) Spagna 99,26 (+151,92%) Francia 96,14 (+41,65%) Germania 70,99 (+9,33%) USA 105,15 (+44,33%) Qui c’è poco da argomentare. La crisi, con le spese per i salvataggi bancari, la spesa sociale, il crollo del PIL, porta il rapporto debito/Pil a esplodere praticamente ovunque. Segnaliamo solo la scarsa crescita italiana nonostante una recessione che morde decisamente più di altrove sia nel 2009 che nella ricaduta 2012/2013. Quell’aumento tutto sommato moderato, tradotto nella vita delle persone, significa un netto peggioramento delle condizioni di vita materiali, della disoccupazione, delle tutele sociali e della qualità del lavoro. Il modello spagnolo mostra, come avevamo anticipato, e come era prevedibile, tutti i suoi limiti intrinseci con un aberrante + 151% del rapporto debito PIL rispetto a soli 7 anni prima. Non è tutto oro ciò che luccica, soprattutto se basato su fondamentali discutibili. La disoccupazione esplode e, nonostante la crescita odierna del PIL, rimane più alta della media UE e molto più alta di quella italiana. La Francia prosegue nel suo costante aumento del rapporto debito PIL e arriva a sfiorare il 100%. E il crollo dei socialisti di Hollande e le difficoltà attuali di Monsieur Macron ne fanno l’anello debole della catena europea (come abbiamo spiegato qui). Nonostante da loro l’austerità sia stata minore che nel nostro Belpaese, la tradizionale propensione dei cugini d’oltralpe alle lotte sociali rende l’applicazione di un modello “lacrime e sangue” mediterraneo e/o di un’ “Agenda Schroeder” in versione Marianne (che faccia quindi pagare alla propria classe lavoratrice i costi della ristrutturazione economica) praticamente impossibile o comunque parziale, difficoltosa e (giustamente) contestata. Infine gli USA . Per essere stati l’epicentro della crisi se la cavano ancora bene anche se il debito/Pil arriva in zona 105%. Continuano chiaramente a beneficiare della loro dimensione di preminenza imperiale anche se, paragonata al periodo 1945/75, la stessa mostra crepe sempre più vistose, che lasciano presagire qualcosa di simile a una crisi strutturale di quel modello, stile anarchia imperiale romana del 3 secolo D.C. Se volessimo trarre una conclusione da questa lunghissima cavalcata storica è il rivelarsi, in tutta la loro miseria culturale, politica, economica e anche umana, dei cliché moralisti sul “vivere al di sopra” delle proprie possibilità e, lato nazionale, su un Italia antropologicamente destinata a inefficienza e spesa allegra contro un mitizzato estero ontologicamente efficiente e moderno. Il rapporto debito/Pil nel suo evolversi ha spesso andamenti ragionevolmente simili nei vari paesi, dei veri e propri trend macroeconomici dipendenti dal contesto internazionale e dalla fase del ciclo economico che si sta affrontando. Inoltre la spesa pubblica (o persino il taglio delle tasse da trickle down) ha chiare valenze politiche. Come da noi negli anni ’60 ( è lì che noi dobbiamo spendere molto più di tutti gli altri) può servire a creare le basi industriali di un paese moderno e quelle di uno stato sociale. O può servire a conquistare consenso a fronte di rischi rivoluzionari per le classi dirigenti (la nostra negli anni ’70, il taglio delle tasse reaganiano negli ’80 USA per portare la sfida al cuore di un’ URSS in difficoltà eliminando il nemico storico prima che i limiti del capitalismo stesso emergessero in tutta la loro evidenza). Al contrario, periodi di maggiore austerità sono dovuti alla rinuncia ed alla dismissione di funzioni fondamentali dello stato moderno, come avvenuto nella Spagna franchista o nella Francia gollista dei ’70 (in questo caso in parte vivevano su un benessere pregresso). Oppure, a boom economici, come quello spagnolo dei 2000, di discutibile stabilità e profondità, che poi vengono pagati con crolli violentissimi subito dopo. Concentrando l’attenzione sull’Italia possiamo notare che se, in assoluto, il nostro rapporto debito/PIL sembra crescere più di quello degli altri paesi, un grafico logaritmico evidenzia come la tendenza sia ad una maggiore espansione dei debiti spagnolo e francese, destinati, a politiche invariate, a superare il nostro: Grafico 2: andamento lineare del rapporto debito PIL Grafico 3: andamento logaritmico dell’ andamento Debito / PIL Una breve chiosa: nel grafico lineare (grafico 2) una variazione da 1 a 5 viene riportata come poco meno della metà di una da 10 a 20. Conta il valore assoluto, per cui vedrete graficamente un debito che aumenta moltissimo da 10 a 20 e un po’ meno della metà da 1 a 5. E’ la visualizzazione normalmente riportata per il rapporto debito/PIL su tutti i giornali. Nel grafico logaritmico una variazione da da 1 a 5 sul viene riportata come un quintuplicare, mentre una da 10 a 20 come un raddoppiare. Serve per vedere non i valori assoluti ma i trend, le percentuali di crescita/diminuzione, aspetti sui quali un grafico assoluto con i valori lineari ci ingannerebbe come indicato sopra. Se il debito quintuplica vedrete da 1 a 5 una linea che è un po’ più del doppio di quella che va quando raddoppia da 10 a 20. Fatta questa premessa dall’ esame dei tre grafici (questi, unitamente a quello proposto all’ inzio della nostra analisi) si nota, in modo abbastanza chiaro, come il periodo il nostro rapporto Debito/Pil peggiora molto rispetto agli altri stati sia quello dal dopoguerra agli anni ’70: c’era un paese da costruire (più che ricostruire), uno stato sociale da creare, una situazione di tensione politica che costringeva le classi egemoni a una maggiore spesa (anche, in parte, clientelare) a favore delle masse. Chiamare tutto questo “vivere al di sopra dei propri mezzi”, come fanno persone spesso appartenenti a ceti sociali molto privilegiati, è sbagliato nei fatti (in quel periodo l’Italia passa da nazione contadina a potenza industriale) e disumano socialmente (sembra implicare che i poveri non abbiano diritto a un sistema di welfare state). Si tratta di una falsificazione mirata a screditare, agli occhi delle masse, un periodo (anni ’60 e ’70) in cui, causa rapporti di forza sfavorevoli, i “dominanti” sono stati costretti ad aprire e tenere aperti i cordoni della borsa per evitare il peggio. Successivamente siamo in linea con gli altri stati e, dalla metà dei ’90, siamo noi, più di altri, le “brave formichine” rigoriste. Anche con la crisi, anche a prezzo di distruggere parte di quel benessere, di quella struttura industriale, di quei diritti accumulati nei decenni precedenti. Grazie al “famigerato” debito pubblico.

http://sakeritalia.it/economia/debito-pubblico-le-fondamenta-del-nostro-benessere/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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