Un cranio d’alce impagliato, un trofeo di caccia appeso sul caminetto di un ministro degli interni che può vantare ben pochi meriti nella cattura della preda: questo sembra essere diventato Cesare Battisti messo al centro di uno spettacolo di propaganda politica tra i più grotteschi cui ci sia capitato di assistere negli ultimi anni. L’arresto di un latitante, l’esecuzione di una sentenza è, come sobriamente converrebbe dire, «un atto dovuto» non una fiera delle vanità, una carnevalata giustizialista in costume da poliziotto.

L’uomo, condannato molti decenni fa per gli omicidi commessi da un gruppo che figura tra le peggiori derive del conflitto armato degli anni Settanta è caduto nelle mani della giustizia italiana grazie a Bolsonaro, il militare di estrema destra che ha vinto le elezioni presidenziali in Brasile e al governo di sinistra boliviano che lo ha espulso senza indugio e senza tanti complimenti.

Ricevendo, poi, da parte degli esponenti politici italiani un accanimento e uno spirito di vendetta che non si confà a nessuna figura istituzionale. Quasi a confermare ciò che i difensori di Battisti sostenevano da sempre per scongiurarne l’estradizione e cioè che in Italia non avrebbe ottenuto un trattamento equo e corretto. L’ordalia propagandistica che si sta consumando intorno al prigioniero è già di per sé un atto di ingiustizia e di gratuita violenza.

Una pura e semplice strumentalizzazione al servizio dell’ennesimo attacco contro la storia della sinistra nel suo insieme. Che, stando al coro che si leva da più parti, di Battisti avrebbe fatto il suo protetto, se non addirittura un idolo. Naturalmente si tratta di una smaccata menzogna.

La famosa dottrina Mitterrand non entrava nel merito dei singoli casi, ma rifiutava l’estradizione in quei paesi dove, ai tempi delle istruttorie e delle sentenze, l’esercizio della giustizia non appariva limpido e imparziale.

Se non bastassero il teorema Calogero, le migliaia di carcerazioni preventive finite in assoluzione o il massacro di via Fracchia a dimostrarlo, Francesco Cossiga, che all’epoca occupava la poltrona di Salvini, non aveva timore di dichiarare senza peli sulla lingua che in quei frangenti lo stato giocò duro e non si astenne dal forzare le regole e fare ricorso a strumenti tutt’altro che ortodossi.

Battisti si avvalse dunque, non di una protezione specifica, ma di quella contingenza generale che poi, a sempre più grande distanza dai fatti e dai contesti, il Brasile di Lula avrebbe in qualche modo ripreso non ritenendola del tutto estinta.

Anche alcuni intellettuali presero le difese del militante dei Pac, chi volendo credere alla sua innocenza, chi ritenendolo cambiato e innocuo e dunque perseguitato per una mera questione di principio, senza peraltro nutrire simpatie per la lotta armata.

Ma, tutto sommato, Battisti è sempre stato alquanto isolato e la rete mondiale di fiancheggiatori e protettori una gran fanfaluca.

Lui che una vera e propria storia politica non l’ha mai avuta, ha invece avuto il destino segnato da una serie di passaggi politici e il fatto che le sue disgrazie abbiano coinciso con i successi della destra, prima in Francia, poi in Brasile, non rende meno torve quelle, né migliore lui che ne ha subito le conseguenze.
Buon ultimo è Salvini a incassare politicamente l’esito di questa interminabile vicenda che la nebbia del tempo trascorso rende manipolabile a piacere.

Per fare i conti non con l’«assassino comunista» ma con una intera stagione di conflittualità sociale.

E rilanciare la caccia alle streghe, quelle scampate alla repressione degli anni Settanta e, soprattutto, quelle che eventualmente volessero oggi mettersi di traverso sulla sua strada.

Il linciaggio mediatico di Cesare Battisti e le inutili vessazioni (come il semestrale isolamento diurno a trentasette anni dalla sentenza) cui probabilmente verrà sottoposto hanno precisamente questo scopo: l’esaltazione di uno stato muscolare, implacabile, infallibile e vendicativo.

Questo spettacolo offerto dalle autorità italiane, il ripristino della gogna e le minacce sparse al vento dovrebbero indurre qualunque governo democratico a riflettere seriamente prima di estradare chicchessia nel paese governato da Salvini e Di Maio.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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