Le scelte urbanistiche romane sono state funzionali alla riproduzione del capitale e ad assorbirne i surplus. Nelle varie fasi del capitalismo abbiamo perciò tre modelli di città: la città industriale, la città keynesiana e la città neoliberista.La città, percepita caotica, si sviluppa in realtà seguendo logiche ben precise. Si è abituati ad un determinato assetto spaziale, naturalizzandolo; ovvero, citando Bourdieu, con la convinzione che le differenze spaziali con le loro specifiche condizioni provengano dalla loro stessa natura piuttosto che essere considerate risultante delle logiche storiche, e quindi economiche, del periodo nel quale vengono prodotte. La città non è un essere a sé stante, è espressione del nostro sistema economico capitalista e risponde alle sue esigenze: quella di riprodursi, resistendo ad eventuali crisi per evitare che il sistema collassi, e quella di creare profitto (D. Harvey). Così ogni città, seppur sviluppandosi diversamente, favorendo in maniera razionale e non casuale una determinata frazione di capitale (industriale, finanziaria, simbolica, commerciale) in base alle caratteristiche spaziali e politiche di un territorio, deve promuovere e essere utile al ciclo di riproduzione del capitale. La città si configura quindi gerarchicamente, in quanto materializza gli interessi della classe capitalista a sfavore delle classi subalterne. Questa configurazione spaziale però non avviene pacificamente, è esito infatti dei conflitti di classe: è proprio nel conflitto di classe che si anniderebbe la possibilità di deviare investimenti economici a proprio vantaggio. La configurazione spaziale che segue questi interessi è coadiuvata dalle scelte politiche urbane che avallano progetti classisti e privati, sia adottando azioni coercitive a livello normativo, sia reprimendo a livello pubblico qualsiasi azione che tenti di modificare il tessuto urbano nella direzione contraria, tutelando interessi pubblici e collettivi. Retoricamente si fanno passare per fini di utilità pubblica e per interessi collettivi progetti urbani che celano in realtà interessi particolaristici, utilizzando strumenti di “finta democrazia” per ottenerne il consenso sociale. L’urbanizzazione è stato il processo, non casuale, che ha permesso al nostro sistema economico capitalista in crisi, di continuare a riprodursi. Storicamente i profitti sono stati mantenuti grazie all’esistenza dei circuiti di capitale nei quali esiste sempre un suo surplus che deve essere assorbito. Prendiamo in considerazione la produzione industriale (I° circuito di accumulazione del capitale); si determinò una crisi di sovrapproduzione in quanto una grande massa di beni non veniva assorbita garantendo la realizzazione del plusvalore. Questa crisi venne risolta a livello urbano, quindi nel II° circuito di accumulazione grazie alla costruzione di infrastrutture per la circolazione, lo scambio e il consumo di capitale. Grazie quindi allo spostamento dei flussi di capitale, cioè all’assorbimento delle eccedenze di capitale che garantiscono il profitto, dal sistema industriale all’ambiente costruito – cioè dal I° al II° circuito di accumulazione – il capitalismo si riproduce e continua a garantire profitto in maniera anticiclica (D. Harvey). Questi spostamenti creano non poche difficoltà e necessitano di alcuni elementi saldi: un sistema sviluppato di credito che crei capitale fittizio da investire ed uno Stato che sia garante dei finanziamenti dei progetti urbani. Si configurano così storicamente tre modelli di città, che vanno incontro alle diverse esigenze storiche del capitalismo: la città industriale, la città keynesiana e la città neoliberista. Nella prima sono prodotte le eccedenze per poi passare alla successiva: la città del consumo e la protagonista del fenomeno di suburbanizzazione. A livello storico è con il fenomeno della suburbanizzazione che si iniziano a garantire enormi profitti. Convincendo le persone, veicolando determinati valori (mito borghese della casa di proprietà) ed utilizzando varie retoriche (costruzione di quartieri per la riproduzione sociale della classe lavoratrice), le famiglie si persuasero ad indebitarsi per la casa. Città quindi espressione della riproduzione sociale con logiche ancora redistributive. L’ultimo modello di città è quello neoliberista: il problema non è più il sottoconsumo ma l’offerta. Si deve creare un consumo esclusivo in città che attiri nuovi consumatori da fuori, e città competitive sul mercato finanziario globale. Se il processo di urbanizzazione ha garantito anti-ciclicamente la sopravvivenze del capitalismo, a volte è una prassi strutturale, e non per rispondere alle crisi, che una città investa nel II° circuito di accumulazione: date le caratteristiche spaziali e di suolo favorevoli per l’investimento nell’economia del mattone e grazie alla presenza di una classe che tutela ed è portatrice di questi interessi. Le eccedenze di capitale urbanizzate e privatizzate hanno permesso l’arricchimento della classe capitalista. Grazie al meccanismo della rendita vengono garantiti profitti continui correlati alla proprietà di suolo che è stata edificata, e il problema a livello sociale sorge nel momento in cui non vi è una logica redistributiva, configurando una città di fatto privata. I territori che possono essere urbanizzati sono limitati ma, questa scarsità può essere elusa in quanto un territorio urbano è manovrabile. Abbiamo una rendita di tipo assoluto quando è indipendente dal suo posizionamento sul suolo urbano, differenziale quando sono presenti dei vantaggi specifici di un territorio dipendenti anche dagli investimenti che si sono compiuti. Si creerà valore in un determinato territorio, oltre a modificarlo fisicamente, anche grazie all’influenza delle rappresentazioni sociali, guidate appositamente, che ne influenzeranno il valore stesso. Il territorio urbano si è configurato a vantaggio della rendita comportando enormi conseguenze a livello sociale: emergenze sociali, assenza di servizi, socializzazione mediata dal capitale, individualismo, deterioramento dei legami sociali. Conseguenze politiche: non vi è un criterio costruttivo basato su una pianificazione pubblica ma sulla speculazione e sul clientelismo tra politici e costruttori (esempio palese la modificazione delle destinazioni d’uso dei terreni). Anche a livello spaziale si hanno forti ripercussioni: il sistema della rendita conduce inevitabilmente a uno sviluppo urbano diffuso con la nascita di quartieri dormitorio, con conseguenze sul sistema dei trasporti. Sorgono centri commerciali, importanti protagonisti di questo modello urbano, che si sostituiscono alle piazze per la socialità e alle amministrazione per dirigere a proprio favore lo sviluppo dei quartieri. La campagna e i territori destinati all’uso agricolo vengono trasformati per ricevere enormi quantità di cemento. In un tale scenario, che restituisce una città escludente e povera per molti, i tentativi di resistenza più differenziati nelle loro forme e rivendicazioni, a partire dai movimenti o dalle dal tessuto della cittadinanza attiva, sono numerosi. “(…) come lo spazio fisico è definito dall’esteriorità specifica delle parti, allo stesso modo lo spazio sociale è definito dall’esclusione reciproca (o la distinzione) delle posizioni che lo costituiscono, cioè come struttura di giustapposizione di posizioni sociali. La struttura dello spazio sociale si manifesta così, nei contesti più diversi, nella forma di opposizioni spaziali, laddove lo spazio abitato (o appropriato) funziona come una sorta di simbolizzazione spontanea dello spazio sociale. In una società gerarchizzata non c’è spazio che sia gerarchizzato e che non esprima le gerarchie e le distanze sociali in una forma deformata e soprattutto mascherata dall’effetto di naturalizzazione (…) così, le differenze prodotte dalla logica storica sembrano provenienti dalla natura stessa delle cose (…) il potere dello spazio offerto dai diversi tipi di possesso di capitale si manifesta nello spazio fisico appropriato nella forma di un certo rapporto tra la struttura spaziale della distribuzione degli agenti, e la struttura spaziale della distribuzione dei beni o dei servizi, privati o pubblici. La posizione di un agente nello spazio sociale si esprime nel luogo dello spazio fisico in cui è situato (…) nello spazio attraverso le sue proprietà (…). Lo spazio sociale reificato si presenta, così, come la distribuzione nello spazio fisico di diverse specie di beni e servizi, e anche di agenti individuali e di gruppi fisicamente localizzati e dotati di possibilità di appropriazione di questi beni e servizi più o meno importanti. È nel rapporto tra la distribuzione degli agenti e la distribuzione dei beni nello spazio che si definisce il valore delle diverse regioni dello spazio sociale reificato.” [1] Nella città è quindi necessario opporsi, creare alternative, tentare di deviare i flussi di capitale; anche se: “il prodotto sociale di una certa autonomia culturale dipende dal posto occupato nei rapporti di produzione, dal sistema istituzionale e dal sistema di stratificazione sociale” [2]. Il dominio di uno spazio riflette i gruppi che dominano l’organizzazione e la produzione di quello spazio, e qualsiasi controcultura o sottocultura urbana fatica quindi a determinare un cambiamento strutturale.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/l-urbanizzazione-che-tiene-in-vita-il-capitalismo-il-caso-della-rendita-fondiaria-urbana

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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