Da luglio, dalla formazione del governo Lega-5Stelle, l’Italia è in (lieve) recessione. La politica economica è senza una direzione, tra mediazioni al ribasso con i poteri economici e ricerca del consenso tra i “perdenti”. Amministrare il declino appare il tratto distintivo del governo, pericoloso miscuglio “lib-pop”. I dati sull’economia resi noti dall’Istat aggiungono un tassello essenziale per capire la situazione italiana. È dal luglio 2018, dalla formazione del governo, che l’economia è in recessione: un lieve calo (-0,1 e -0,2% nei due ultimi trimestri del 2018) che però rovescia il lieve recupero avvenuto tra 2013 e 2017. Il grafico Istat qui accanto mostra che oggi siamo ancora del 5% sotto il livello in termini reali del Prodotto interno lordo (Pil) del 2008, prima della crisi: oltre un decennio di declino dell’economia italiana. Prima c’è stata la brusca caduta per la crisi finanziaria del 2008, nata negli Stati Uniti, poi nel 2011 la nuova crisi sud-europea legata all’emergenza debito pubblico. Da allora la ripresa è stata lentissima, fino alla nuova riduzione del Pil degli ultimi sei mesi. Fonte: Istat, Statistiche flash, Stima preliminare del Pil, 31 gennaio 2019 Questo declino ha due cause principali. Quella strutturale è nel degrado della base produttiva del Paese, nella caduta del 20% degli investimenti e della produzione industriale nell’ultimo decennio, nei bassi livelli di ricerca e innovazione, che portano a produttività stagnante e bassi salari. Quella politica è legata all’ideologia dell’austerità che ha segnato il processo d’integrazione europea e ha impedito – in particolare nei Paesi del Sud Europa – l’introduzione di misure espansive. Nel 2008 gli Stati Uniti hanno allargato massicciamente la spesa pubblica e avviato l’espansione monetaria, nota come quantitative easing; ora hanno un rapporto deficit pubblico/Pil vicino al 5%, ma una crescita del 3,5%. In Europa la reazione alla crisi del 2008 è stata opposta: restrizione monetaria e tagli di spesa; la seconda caduta del 2011 è stata il risultato dell’incapacità politica di dare stabilità all’area euro e affrontare la crisi della Grecia (relativamente piccola per dimensioni finanziarie). Il cambio di rotta di Mario Draghi (il ‘whatever it takes’ del luglio 2012) e la tardiva espansione monetaria hanno fermato la caduta, ma allargato la divergenza tra la modesta crescita di Germania ed economie satelliti, e il ristagno del sud Europa. Ora il rapporto deficit pubblico/Pil per i paesi europei è all’1%, ma il prezzo è stato un decennio perduto. In Italia il peggioramento delle condizioni di vita è andato ben oltre il declino del Pil. Il reddito medio per abitante è ora ai livelli di vent’anni fa. Ma la media nasconde la crescita delle disuguaglianze. Il divario tra ricchi e poveri si è allargato: solo il 10% più ricco ha visto crescere i propri redditi; tra i lavoratori dipendenti, il 25% con i salari più bassi ha avuto un perdita del 20% dei salari reali; le disparità di ricchezza sono sempre maggiori, la distanza nei redditi tra nord e sud si è fatta insostenibile. L’impoverimento e la paura di scivolare indietro sono alla radice del voto del marzo 2018 (esaminato in quest’articolo), ma l’agenda politica del governo Lega-Cinque Stelle non ha affrontato le cause del declino, ha piuttosto cavalcato le sue conseguenze. Ha tenuto fermo l’impianto liberista in economia, il ‘lasciar fare’ alle imprese, condito con una retorica populista (una politica ‘lib-pop’, analizzata qui). Vediamo come si è mossa la politica economica. Il governo ha mantenuto in sostanza le politiche di austerità, con un deficit ‘contrattato’ con Bruxelles al 2,04% del Pil; gli effetti espansivi della spesa pubblica sono assai limitati, anche per l’aumento della spesa per interessi dovuto allo ‘spread’ sul debito pubblico. Con l’economia in recessione i fattori che possono sostenere la crescita sono fermi. Il commercio mondiale è in rallentamento con le nuove ‘guerre commerciali’ aperte dagli Stati Uniti di Trump. Gli investimenti privati non si riprendono; con l’attuale mancanza di domanda e incertezza politica le imprese stanno a guardare e portano capitali all’estero. Gli investimenti pubblici sono stati tagliati da tutti i governi, quello Lega-Cinque Stelle compreso, peggiorando la domanda per le imprese, le infrastrutture, le condizioni di vita. In quest’occasione, il taglio degli investimenti è servito a trovare le risorse per i due programmi prioritari di Lega e Cinque Stelle, Quota 100 sulle pensioni e Reddito di cittadinanza, due misure redistributive che intervengono su problemi reali del Paese – i danni della riforma Fornero sulle pensioni e l’assenza di un reddito minimo – ma con modalità confuse, che creano nuove disparità tra lavoratori vicini alla pensione e tra i cittadini in condizioni di povertà. Per di più, le notevoli risorse per queste misure non vengono da un aumento della tassazione dei più ricchi, ma da trasferimenti ‘orizzontali’ tra cittadini a medio reddito, e non riescono così ad avere effetti rilevanti sulla crescita. Senza crescita, cadranno le entrate fiscali, e i conti del bilancio appena approvato dovranno essere rivisti a luglio: se non tornano, il governo ha già previsto tagli automatici per diversi miliardi, una nuova austerità che aggraverà la recessione. In più l’anno prossimo si dovranno trovare risorse per decine di miliardi per evitare gli aumenti automatici dell’Iva e misure di ‘salvaguardia’ concordate tra Bruxelles e Roma. Il bilancio appena approvato ha utilizzato tutti i margini per misure redistributive in vista delle elezioni europee di maggio 2019, ma al prezzo di serie prospettive di aggravamento della recessione. La politica economica del governo appare così senza una direzione. Si annaspa nell’immediato, ipotecando il futuro. Non c’è un’idea di come far funzionare l’economia e di come uscire da un decennio di recessione. Se non quella – solita, e comune ai governi precedenti – di offrire alle imprese nuovi favori: fiscali (flat tax, minori controlli anti-evasione), sul costo del lavoro (la possibilità di versare alle imprese il reddito di cittadinanza dei nuovi assunti), normativi (de-regolamentazione di molte attività) e incentivi ‘orizzontali’ che trattano tutte le imprese allo stesso modo. Tra questi, resta lo sconto fiscale per le spese di ricerca e l’acquisto di macchinari, orientate soprattutto al progetto ‘Impresa 4.0’ che spinge le poche imprese già tecnologicamente avanzate a accelerare automazione e digitalizzazione, con effetti negativi su quantità e qualità del lavoro. L’effetto immediato di tali misure è di sostenere i profitti delle imprese, riducendo in modo significativo le entrate della tassazione. Ma nel lungo periodo l’effetto è di mantenere immutata l’attuale struttura produttiva del paese, dando spazio a imprese piccole, poco produttive, a bassa tecnologia e con pochi investimenti, che possono sopravvivere solo grazie alla riduzione dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro. L’esito è quello già visto: una diminuzione della produttività che alimenta il declino del paese. Si delinea così un “circolo vizioso” tra una struttura economica povera di conoscenze e tecnologie, una produttività stagnante con divari di innovazione e competitività rispetto all’Europa, la perdita di posti di lavoro e bassi salari. La precarizzazione del lavoro diventa un modo per adattarsi, con le imprese che usano lavoratori meno qualificati e peggio pagati per mantenere produzioni a basso costo. Queste politiche – all’insegna di un liberismo d’imitazione – caratterizzano l’Italia da trent’anni e ne hanno tracciato la parabola. Si sono affidate al mercato, lasciandolo conquistare dalle grandi imprese straniere. Hanno favorito la finanza, senza avere un settore finanziario degno di questo nome. Hanno rinunciato al ruolo dello stato, senza avere imprese capaci di investire. L’illusione liberista e gli scossoni della crisi hanno ricostruito una rigida gerarchia tra le economie più forti – Cina compresa – facendo scivolare indietro l’Italia. Quello che è nuovo oggi, in un contesto di maggiori difficoltà economiche, è che la politica del governo Lega-Cinque Stelle sembra smarrire qualunque disegno di sviluppo e ridursi ad amministrare la nuova fase del declino italiano. Se questo governo è uno dei risultati del lungo declino del paese, la sua politica ora ne accelera la traiettoria discendente. Da qui una politica economica fatta di mediazioni al ribasso con finanza, grandi imprese, poteri europei. E, dall’altro lato, di inseguimento del consenso tra i ‘perdenti’, dalle piccole imprese del nord a egemonia leghista, agli impoveriti del sud che sperano nei Cinque Stelle. L’economia politica del declino diventa così il tratto distintivo del governo giallo-verde, un pericoloso miscuglio ‘lib-pop’, di liberismo e populismo, una rincorsa tra disagio economico, disgregazione sociale, degrado politico, che potrebbe portare l’Italia a un esito di destra estrema.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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