Le politiche monetarie della BCE,rappresentate in 8 grafici dall’economista Ashoka Mody, si manifestano senza mezzi termini come politiche fallimentari: con un approccio del tutto asimmetrico, volto a combattere l’inflazione anche quando è solo un fantasma e a intervenire con esitazione e in ritardo sulle tendenze deflazionistiche, la BCE ha infilato l’Eurozona in una palude di bassa inflazione cronica, amplificando le divergenze tra paesi a tutto detrimento dell’Italia. I limiti politici strutturali della BCE le impediscono un’azione efficace e autorevole sui mercati.
Hélène Rey, professore alla London Business School, sostiene che la Federal Reserve statunitense determina la politica monetaria globale. La Fed determina il tasso di interesse della valuta dominante a livello mondiale, il dollaro USA. Le decisioni politiche della Fed, quindi, innescano il “ciclo finanziario globale”, che determina i flussi di capitale globale in tutto il mondo, ponendo forti restrizioni alle politiche monetarie nazionali.
Alcuni, tuttavia, insistono sul fatto che tutte le banche centrali sono ugualmente efficaci (o inefficaci). Claudio Borio della Bank of International Settlements sostiene che le politiche della banca centrale non sono in grado di determinare i tassi di inflazione. La competizione internazionale mantiene l’inflazione globale bassa e le banche centrali, nel maldestro tentativo di prevenire la deflazione, riducono i tassi di interesse a livelli molto bassi. In questo modo le banche centrali incoraggiano gli investimenti speculativi, che alla fine scatenano crisi finanziarie. Raghuram Rajan, economista dell’Università di Chicago, rientra tra questo gruppo di economisti.
Altri sostengono l’opposto, incolpando tutte le banche centrali di aver dimostrato un’ingiustificata timidezza dopo l’inizio della crisi finanziaria globale (GFC). Tali critici affermano che nessuna tra le banche centrali “è riuscita a portare l’inflazione all’obiettivo dichiarato”, in quanto non hanno usato pienamente la loro capacità di stimolare l’economia.
Rey ha ragione nel dire che la Fed è la banca centrale più potente al mondo, ma non solo per la ragione da lui sottolineata. La Fed è anche la banca centrale più autorevole al mondo, il che la rende estremamente influente a livello nazionale, oltreché a livello internazionale. La Fed ha alzato il tasso di inflazione degli Stati Uniti al suo obiettivo del 2%. Gli interventi della Fed, precoci e aggressivi, hanno contribuito a spingere l’economia statunitense verso una più rapida ripresa; quella stessa audacia ha impedito la caduta delle aspettative di inflazione. Al contrario, la Bank of Japan (BOJ) e la Banca centrale europea (BCE), avendo lasciato scendere troppo i tassi d’inflazione, si sono dimostrate incapaci di riportarli all’obiettivo.
I commentatori a volte considerano la BOJ inadeguata rispetto alle altre banche centrali, presumibilmente perché ha fallito, nonostante i grandi sforzi compiuti, nel suo tentativo di far ripartire l’inflazione. Molti, soprattutto Paul Krugman, sottolineano la scarsa efficacia della BOJ, per la quale investitori e consumatori hanno perso la fiducia nella possibilità che la BOJ portasse avanti le sue politiche di stimolo.
Da questa prospettiva, Mohamed El-Erian, principale consigliere economico di Allianz, ha recentemente descritto la Fed e la BCE come “le due banche centrali più importanti dal punto di vista sistemico“. Ma accomunare Fed e BCE è appropriato? In questo saggio, documento i costi della timidezza della BCE, che, a mio avviso, deriva dai limiti politici delle sue azioni e che rende la BCE, almeno per certi aspetti, ancora meno efficace della BOJ.
Il ritardo della BCE nel quantitative easing
La BCE è fortemente avversa all’inflazione, ma è più tollerante nei confronti delle tendenze deflazionistiche. Questa predisposizione asimmetrica non è il risultato del suo mandato di raggiungere la stabilità dei prezzi. La BCE ha scelto di interpretare questo mandato in modo asimmetrico. Si è concentrata sul mantenimento dell’inflazione al di sotto del 2 percento, ma ha minimizzato l’obiettivo di mantenere l’inflazione vicina al 2 percento.
In periodi di pressione inflazionistica, l’impegno ideologico per la “stabilità dei prezzi” fa sì che la BCE mantenga una politica monetaria restrittiva. Questa ideologia si è manifestata tra il 2001 e il 2003. Sebbene il ritmo del rallentamento dell’economia e i tassi di inflazione fossero simili su entrambe le sponde dell’Atlantico, la BCE ha abbassato i tassi di interesse solo lentamente e con riluttanza, mentre la Fed ha ridotto i tassi drasticamente. La BCE ha prestato maggiore attenzione all’inflazione piuttosto che al rallentamento economico. Quando i leader nazionali fecero pressioni sul presidente della BCE Wim Duisenberg perché allentasse la politica monetaria, come è noto egli replicò: “Sento ma non ascolto“. Allo stesso modo, dopo l’inizio della GFC (la grande crisi finanziaria,ndt), la prima azione della BCE nel luglio 2008 fu di alzare il tasso di interesse; la BCE alzò i tassi ancor più seriamente in aprile e luglio 2011, scatenando il panico finanziario e spingendo l’eurozona in condizioni recessive prolungate. In ciascuno di questi casi, la BCE stava combattendo la minaccia di un’inflazione fantasma, senza considerare che il rallentamento economico in corso avrebbe moderato l’inflazione.
La condivisione ideologica della decisione di innalzare il tasso di interesse era tale che persino Mario Draghi, spesso considerato più equilibrato tra i suoi zelanti colleghi del Consiglio direttivo della BCE, difese pubblicamente la logica del vergognoso rialzo dei tassi del luglio 2011, sia prima che dopo la decisione.
Mentre l’ideologia univa il Consiglio direttivo nella lotta contro l’inflazione, la divergenza degli interessi nazionali la tratteneva dal contrastare la deflazione. Gli interessi divergenti si sono palesati in maniera evidente verso la fine del 2012. Negli Stati Uniti, dove il tasso di inflazione era più o meno uguale a quello dell’eurozona, la Fed sotto la presidenza di Ben Bernanke intensificò gli acquisti di obbligazioni nell’ambito dei programmi di QE (figura 1).
Figura 1: La BCE è intervenuta con ritardo nel contrastare le tendenze deflazionistiche. (a sinistra i tassi della politica monetaria in percentuale; a destra gli attivi delle banche centrali nel luglio 2007). Fonti: grafico di sinistra – Federal Reserve Bank di New York, “Ricerca storica dei dati dei fondi federali”; Banca centrale europea, “Principali operazioni di rifinanziamento”, offerte a tasso fisso; Bank of England,https://www.bankofengland.co.uk/boeapps/database/Bank-Rate.asp; grafico di destra – Federal Reserve Bank of St. Louis, codici ECBASSETS per la BCE, WALCL per la Fed. USA. UKASSETS e codice RPQB75A della Banca d’Inghilterra per la BoE.
Contribuendo in questo modo a ridurre i tassi di interesse a lungo termine, la Fed ha cercato di indurre maggiori spese e quindi prevenire recessione e deflazione. Al contrario, la BCE è rimasta praticamente immobile. Il tasso di inflazione della zona euro ha iniziato a calare restando costantemente al di sotto del tasso di inflazione negli Stati Uniti (Figura 2).
Figura 2: Il tasso di inflazione dell’area dell’euro ha iniziato a calare a metà del 2013, provocando il danno della bassa inflazione.
(Media mobile a tre mesi dei tassi di inflazione “core”, variazione percentuale annua). Fonti: Eurostat: “HICP – Tutti gli articoli escluso energia e alimenti”; Fed. Di St. Louis, FRED: “Spese per consumi personali escluso alimenti ed energia (indice dei prezzi concatenati).”
Nota: il valore del dicembre 2018 per l’area dell’euro è una stima.
La dirigenza della BCE ha inizialmente ignorato il calo del tasso di inflazione dell’eurozona, considerandolo come un dato temporaneo. Al posto di un’importante iniziativa di QE, Draghi ha messo in campo uno scarso argomento economico. Nel novembre 2013 ha dichiarato che la BCE disponeva di “tutta una serie di strumenti” che “se necessario” avrebbe implementato. Nell’aprile 2014 ha riconosciuto che “alcune volte” le previsioni della BCE su un aumento dell’inflazione si erano rivelate errate. Ha insistito, tuttavia, che la BCE sarebbe intervenuta solo se l’inflazione fosse rimasta bassa per un periodo” troppo prolungato”. Tale fraseologia volutamente vaga era un tentativo evidente, e quindi fallito, di mascherare le tensioni all’interno del Consiglio direttivo. Gli stati membri del Nord, con il presidente della Bundesbank Jens Weidman in testa, si opponevano pubblicamente al QE.
Le conseguenze del QE tardivo
La BCE ha infine avviato il QE a gennaio 2015, ma solo dopo che la bassa inflazione – tassi di inflazione persistentemente bassi – si era instaurata. E non solo il tasso medio di inflazione della zona euro si era attestato attorno all’1 per cento, ma si era manifestata anche una preoccupante divergenza tra i tassi di inflazione dei diversi paesi. Il tasso di inflazione in Germania era ben superiore all’1%, mentre in Italia era decisamente al di sotto dell’1% (Figura 3). Questo era prevedibile. La politica monetaria era particolarmente severa per l’Italia, dall’economia più debole. Ciò ha spinto al ribasso il tasso di inflazione italiano, mantenendo il tasso di interesse reale italiano (il tasso d’interesse corretto per l’inflazione) molto più alto di quello tedesco. Pertanto, la politica monetaria restrittiva ha rafforzato le divergenze economiche all’interno dell’eurozona.
Figura 3: Il problema dell’eurozona: una politica monetaria unica provoca divergenze di inflazione e il problema della bassa inflazione in Italia. (Variazione percentuale dell’inflazione core annuale, media mobile a tre mesi). Fonte: Eurostat. Note: l’inflazione Core è la variazione percentuale annua dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo ad esclusione di energia, alimenti, alcol e tabacco.I dati del dicembre 2018 sono stimedi Eurostat.
La BCE ha continuato a prevedere che l’inflazione sarebbe aumentata, ma l’inflazione media si è rifiutata di muoversi (Figura 4).
Figura 4: La BCE ha continuato a prevedere un aumento dell’inflazione dell’eurozona, ma l’inflazione è rimasta ostinatamente bassa. Fonti: Proiezioni Macroeconomiche della BCE del marzo dell’anno. https://www.ecb.europa.eu/pub/projections/html/index.en.html. Nota: l’inflazione core del 2018 è la media dei mesi da gennaio a dicembre 2018. Dicembre 2018 è una stima Eurostat.
La BCE inoltre non è stata in grado di ottenere un tasso di cambio significativamente più debole per contribuire a stimolare la crescita e l’inflazione. Normalmente, un calo dei tassi di interesse guidato dal QE dovrebbe causare un deprezzamento del valore della valuta. La Figura 5 allinea al tempo “0” i QE avviati dalla BOJ e dalla BCE. Lo yen ha subito una svalutazione sostanziale ed è rimasto più debole rispetto al valore che aveva all’inizio del QE della BOJ. L’euro ha subito un deprezzamento in previsione del QE della BCE, ma almeno una parte di questo deprezzamento è stato causato dal ritiro della Fed dal QE negli ultimi mesi del 2014. Dopo che la BCE ha iniziato il QE, l’euro si è deprezzato solo per poco tempo e poi lentamente è tornato al suo livello di partenza. Quindi, nel complesso, l’euro si è a mala pena deprezzato rispetto al dollaro.
Il mancato deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro è stato causato dalla minaccia della BCE, che già a gennaio 2017 prevedeva di rallentare il ritmo degli acquisti di obbligazioni. A ottobre 2017, Draghi ha parzialmente realizzato questa minaccia. Ha annunciato che, a partire dal gennaio 2018, la BCE avrebbe dimezzato gli acquisti mensili a 30 miliardi di euro. I mercati, quindi, avevano buone ragioni per ritenere che la BCE avrebbe ritirato il QE in anticipo, il che ha mantenuto il tasso di cambio sostenuto in previsione della fine del programma.
Figura 5: La BCE, ancor più che la Bank of Japan, non aveva preso impegni per gli acquisti di bond. Nota: Tasso di cambio JPY / USD pari a 100 il 4 gennaio 2013 (data dell’annuncio del QE da parte della Banca del Giappone) e tasso di cambio EUR / USD pari a 100 il 22 gennaio 2015 (data dell’annuncio del QE da parte di la BCE). Fonte: per USD e yen giapponesi, https://www.investing.com/currencies; per i tassi USD ed Euro, BCE, https://sdw.ecb.europa.eu/quickview.do?SERIES_KEY=120.EXR.D.USD.EUR.SP00.A&periodSortOrder=ASC.
A giugno 2018, Draghi annunciò che la BCE era pronta a liquidare il QE. “Il Consiglio direttivo”, dichiarò, aveva “concluso che i progressi verso un aggiustamento sostenuto dell’inflazione sono stati finora significativi”. Questa è stata una dichiarazione sorprendente. Il tasso di inflazione core era a circa l’1 percento, livello a cui era rimasto per quasi tre anni. A settembre, il rallentamento della crescita dell’area dell’euro è diventato manifesto e la BCE ha rivisto le sue previsioni di crescita a un livello inferiore. Ma Draghi ha continuato a insistere sul fatto che le prospettive di crescita e inflazione rimanevano favorevoli. Alla sua conferenza stampa di dicembre, quando annunciò la fine del QE, Draghi presentò una brillante valutazione economica. “Il punto di forza della domanda interna”, ha affermato, “continua a sostenere l’espansione dell’area dell’euro e ad aumentare gradualmente le pressioni inflazionistiche. Ciò conferma la nostra fiducia che la convergenza dell’inflazione verso il nostro obiettivo procederà e verrà mantenuta anche dopo la fine dei nostri acquisti di titoli.” La valutazione era fastidiosamente in contrasto con i dati – con Germania e Italia in condizioni quasi recessive.
Data questa serie di dinieghi, ritardi e mezze misure, non sorprende che le azioni della BCE non abbiano modificato il tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro USA. Così, la zona euro non è riuscita a ottenere l’unico vantaggio del QE ottenuto sia dagli Stati Uniti che dal Giappone (figura 6). In effetti, poiché il dollaro si è apprezzato rispetto alle altre valute a partire dall’inizio del 2015, quando la Fed ha iniziato un graduale ritiro dai suoi acquisti di obbligazioni, il tasso di cambio effettivo dell’euro ponderato sul commercio per un effetto perverso si è apprezzato dopo l’avvio del QE della BCE. Non c’è da stupirsi, quindi, che il QE della BCE abbia fatto ben poco per la crescita.
Figura 6: I quantitative easing statunitensi e giapponesi hanno rafforzato l’euro, poiché la BCE ha aspettato e perso credibilità. Fonti: Bank for International Settlements, “Effective exchange rate indices, Narrow indices, Nominal”; comunicati stampa del Consiglio dei governatori della Federal Reserve, 25 novembre 2008, 23 settembre 2009, 10 agosto 2010, 22 giugno 2011, 13 settembre 2012, 17 settembre 2014; Ben Bernanke, 2013, “The Economic Outlook”, testimonianza davanti al Comitato economico congiunto, Congresso degli Stati Uniti, Washington, DC, 22 maggio; Shinzo Abe, 2013, “Conferenza stampa del primo ministro Shinzo Abe,” Primo ministro giapponese e suo gabinetto, 4 gennaio; Comunicato stampa della BCE: 22 gennaio 2015.
L’eurozona è in una trappola macroeconomica. La mancanza di un significativo slancio di crescita durante e dopo la prolungata crisi finanziaria e della zona euro ha causato una compressione delle importazioni. La compressione delle importazioni ha portato a un’oscillazione, nei paesi più colpiti dalla crisi, da un disavanzo delle partite correnti verso un surplus (figura 7). Tale surplus ha sostenuto il cambio dell’euro, che, a sua volta, ha creato un ulteriore freno alla crescita.
Figura 7: la politica monetaria deflazionistica ha contribuito al surplus delle partite correnti dell’eurozona. (Percentuale del PIL, media mobile del 4° trimestre)
Fonte: PIL dell’area dell’euro, codice Eurostat namq_10_gdp; Bilancia dei pagamenti, codice Eurostat bop_c6_q; Conto corrente dell’area dell’euro, codice BCE DD.Q.I8.BP_CU.PGDP.4F_N.
La crescita della zona euro è trainata dal commercio mondiale
Draghi afferma che “il QE della BCE è stato l’unico driver di questa ripresa [dell’area dell’euro]”. Al contrario, i dati dimostrano che il QE ha contribuito ben poco a sostenere la crescita dell’area dell’euro. La crescita nell’eurozona è rimasta stagnante nei primi due anni dopo l’avvio del QE da parte della BCE. In questi due anni – il 2015 e il 2016 – il commercio mondiale è cresciuto ad un tasso annuale più o meno del 3%. Poiché i paesi europei sono fortemente dipendenti dagli scambi commerciali, il ritmo anemico della crescita del commercio mondiale ha posto un freno alla crescita della zona euro (Figura 8).
Figura 8: il commercio mondiale, piuttosto che gli acquisti di obbligazioni della BCE, muove la crescita dell’eurozona. (Tassi di crescita annuali, in percentuale; medie mobili a tre mesi) Fonti: per i dati sulla crescita del commercio mondiale, World Trade Monitor, https://www.cpb.nl/en/data; per la produzione industriale della Germania, Destatis, https://www-genesis.destatis.de/genesis/online/logon?sequenz=tabelleErgebnis&selectionname=42153-0001&sachmerkmal=WERTE9&sachschluessel=X12ARIMAASB&leerzeilen=false&language=en; per la Francia, INSEE, https://www.insee.fr/en/statistiques/3690022#titre-bloc-6; per l’Italia, Istat, http://dati.istat.it/?lang=en#. Nota: tasso di crescita calcolato come gli ultimi tre mesi rispetto agli stessi tre mesi dell’anno precedente.
A partire dall’inizio del 2017, le autorità cinesi hanno iniettato uno stimolo significativo per far rivivere la loro economia. Come si è verificato negli ultimi due decenni, la rapida crescita in Cina ha accelerato il ritmo della crescita del commercio mondiale attraverso l’aumento delle importazioni cinesi e la maggiore attività stimolata dalle imprese cinesi nelle catene globali di valore aggiunto. La maggiore crescita del commercio mondiale, che ha raggiunto un picco di oltre il 5 per cento alla fine del 2017, com’era prevedibile ha stimolato la crescita della zona euro. Sebbene vi sia la tentazione di attribuire la maggiore crescita della zona euro a un tardivo beneficio del QE, in realtà tutto era causato dal commercio mondiale. Così, quando le autorità cinesi hanno ritirato il loro stimolo per paura di aggravare le già fragili vulnerabilità finanziarie interne, la crescita del commercio mondiale ha rallentato e così pure l’eurozona. Per tutto il tempo, il QE è rimasto un fenomeno secondario.
La perdita di influenza della BCE produce delle conseguenze
Hélène Rey ha ragione. La Fed, in effetti, stabilisce la politica monetaria globale. La BOJ rimane incapace di incidere sull’inflazione. Mentre i difensori della BCE spesso sostengono che “le cose avrebbero potuto andare peggio” in assenza del suo programma di QE, giudicato secondo i parametri di riferimento di altre banche centrali e persino secondo quelli della sua stessa gestione, il QE della BCE non ha avuto alcun impatto apparente sull’inflazione, o sul tasso di cambio dell’euro, o sulla crescita dell’area dell’euro.
A differenza della Fed, le altre banche centrali hanno perso il “gioco delle aspettative”. Nel giugno 2018, a Sintra, località turistica portoghese, Jerome Powell, presidente della Fed, ha osservato: “Oggi i responsabili politici considerano maggiormente il ruolo delle aspettative nelle dinamiche inflattive”. Il governatore della BOJ Haruhiko Kuroda si è lamentato del fatto che i consumatori giapponesi si aspettano che i prezzi rimangano relativamente stabili, il che fa sì che le aziende esitino ad alzare i prezzi. Cinque anni di QE ambizioso, ha concluso senza speranza, non sono riusciti a rimuovere la “tenace mentalità deflazionistica” radicata nella psiche giapponese.
Come ha sottolineato anche John Williams, presidente della Federal Reserve di New York, una volta che l’inflazione cade, è straordinariamente difficile farla tornare “dove vogliamo che resti”.
I limiti politici della BCE a dare uno stimolo monetario le hanno impedito di riportare l’inflazione dove doveva stare. Il risultato: gran parte della zona euro è caduta in una trappola di “bassa inflazione”. Sebbene nessun paese dell’eurozona si trovi in deflazione effettiva, la bassa inflazione aumenta il tasso di interesse reale e costringe consumatori e investitori a frenare gli acquisti, frenando la crescita, il che convalida l’aspettativa che l’inflazione rimanga bassa, il che fa sì che i consumatori continuino a rimandare gli acquisti.
Tra le banche centrali, la Fed si distingue perché risulta più credibile nel mantenere i suoi impegni e riesce ad influenzare le aspettative nel modo più efficace. Nell’ultima crisi, la Fed è intervenuta presto e non ha lasciato spazio a equivoci fino al 2013. Pertanto, la Fed ha manovrato un forte deprezzamento del dollaro attraverso il QE e lentamente ma sicuramente ha riportato l’inflazione al 2%. La BOJ ha minato la sua credibilità negli anni ’90, quando esitò a combattere la minaccia della deflazione. Quella perdita di credibilità ha continuato a perseguitare il Giappone. Anche nell’ultimo round del QE, nonostante la sua ambizione, qualche episodio di tapering (riduzione dello stimolo monetario, ndt) ha indebolito gli sforzi della BOJ. La BOJ, pertanto, ha avuto solo parzialmente successo: un certo deprezzamento dello yen ma poca trazione sui prezzi.
La BCE ha perso la battaglia delle aspettative e, quindi, la capacità di aumentare l’inflazione. Ancor più della BOJ, la BCE non è in grado di manovrare un deprezzamento del tasso di cambio.
Ora, in un brusco rallentamento economico e una inflazione persistentemente bassa, la decisione della BCE di interrompere i suoi acquisti di titoli rinnova quel suo solito ciclo di dinieghi, ritardi e mezze misure. Alcuni funzionari della BCE, guidati da Benoît Cœuré, confidano nel fatto che l’ampio stock di acquisti di obbligazioni effettuati in passato continui ad esercitare un effetto di stimolo. Questa è una pretesa strana. La transazione marginale, non l’ammontare di titoli detenuti, influenza il prezzo dei bond e, quindi, il loro rendimento. Pertanto, con l’interruzione dei nuovi acquisti da parte della BCE, i prezzi delle obbligazioni scenderanno e il rendimento aumenterà.
Una tale aspettativa di un aumento dei tassi di interesse nell’area dell’euro mantiene il tasso di cambio euro-dollaro in un intervallo ristretto, anche se la Fed ha già alzato il suo tasso di riferimento, da un intervallo tra 0 e 0,25 a dicembre 2016, a un intervallo tra 2,25 e 2,5 a dicembre 2018.
Un aumento dei tassi di interesse nell’area dell’euro potrebbe rivelarsi insostenibile in molti paesi della zona euro. I loro tassi di interesse reali sono già piuttosto alti, i tassi di crescita della produttività sono molto bassi e il tasso di cambio effettivo dell’euro, più forte rispetto all’inizio del QE, potrebbe diventare ancora più sostenuto.
La BCE ha ribadito che potrebbe riprendere il QE. Alla sua conferenza stampa del dicembre 2018, in risposta a una domanda se la BCE potesse “affrontare il prossimo rallentamento economico”, Draghi ha risposto “abbiamo gli strumenti”. Queste sono le stesse parole che ha usato quando la BCE rinviò il QE nel cruciale periodo 2013-2014, consentendo alla bassa inflazione di stabilizzarsi. Se la crescita dell’eurozona rimane debole, un impegno esitante a rinnovare il QE – tra voci discordanti del Consiglio direttivo – sarà accolto con meritato scetticismo. Potrebbe essere tutto piuttosto spiacevole.