Abbiamo superato la metà di febbraio, i fascisti raccolgono le firme per presentarsi alle elezioni europee in tutti i collegi della penisola; il PD fa le primarie e sceglie un segretario a ridosso del voto; chi più chi meno, insomma, dall’estremissima destra agli estremissimi del liberismo di vario colore, si stanno preparando per presentare simboli, liste e programmi dei singoli soggetti che andranno ad essere stampati sulle schede elettorali. Di più ancora c’è da dire che l’Europa che va al voto è, ormai anche dalla Spagna, un continente che vira pericolosamente a destra, che disconosce – dietro la maschera protestataria contro Euro, banche e BCE – l’originario spirito di formazione di un federalismo interstatale che, se davvero avesse ispirato i governi che si riunirono nella prima Comunità europea (che disgraziatamente si formò attorno ad un mero principio economico pur cercando di perseguire un ritrovato slancio di vita per popoli che uscivano da un conflitto bellico devastante e annichilente intere nazioni), avrebbe probabilmente continuato ad autogenerarsi in tal senso. Pur nel contesto economico capitalistico, l’Europa di Altiero Spinelli sarebbe stata quella che ricercava proprio la “linea di divisione” tra potere sovranista (quindi un ritorno rigido agli stati nazionali) e un potere invece “internazionale”, un luogo di crescita di una unità tra potenze che fino a pochi mesi prima erano in acerrima lotta tra loro. La storia del mondo e, quindi, dell’umanità è costellata di autodistruzioni: di guerre fatte per il potere, per scaramucce da niente, per occupazioni territoriali, per ragioni che comunque sono tutte squisitamente riconducibili ad una “economia politica” prima ancora che l’economia politica marxianamente intesa esistesse. Dunque, venendo all’oggi, noi comunisti, noi sinistra di alternativa, ci accingiamo ad affrontare la tornata elettorale europea al momento senza nemmeno avere l’idea del perimetro che contraddistinguerà la coalizione che necessariamente dovrà essere formata: coalizione intesa ovviamente nel senso di lista unica, visto che – per fortuna – il sistema proporzionale ci costringe santamente ad evitare ballottaggi, unioni alla “meno peggio” e richiami al voto in tal senso. Richiami che comunque ci saranno e che si presenteranno per superare numericamente una fortissima Lega e un meno forte Movimento 5 Stelle che vivono contraddizioni di governo nazionale che potrebbero essere acuite da una recupero polmonare di fiato per le forze della cosiddetta “sinistra” da un giornalismo che chiama in questo modo semplicistico (e opportunistico) partiti che sono di centro, politicamente parlando, e di destra, se si scende sul terreno della mera espressione economica, della carezza costante ad un sistema che non vogliono superare (in quanto “sinistra”) e nemmeno più “temperare” (nell’antica accezione prodiana del termine) bensì governare e gestire per quanto possibile nel campo di una sovrastruttura. Dunque, non solo non abbiamo la minima idea delle forze politiche, dei partiti che concorreranno alla formazione di una (unica?) lista elettorale che provi ad avere un più ampio respiro e si traguardi avanti verso le politiche, ma non sappiamo neppure a quale diavolo di minimo programma ci si appelli per consentire un dialogo comune, attorno a princìpi condivisi su cui distinguersi nettamente da tutti gli altri partiti. E’ ancora una volta così che vogliamo disporci ad affrontare un giudizio popolare, chiedendo una delega per sedere al Parlamento di Strasburgo? Con tatticismi di piccola bottega farciti di screzi continui tra chi pretende di avere questa o quella egemonia su misure così piccole che devono far vergognare chi pensa di poter esercitare davvero un ruolo di direzione culturale e politica del “soggetto”, della “cosa” (non vi evochi spettri peggiori di quelli che ho pensato io scrivendola, questa parola…). Non abbiamo niente davvero su cui poggiarci per costruire una casa comune seria, fatta di concretezza e di sentimenti politici che ci facciano percepire come una alleanza e non come dei forzati a vivere in un angusto ambiente per qualche mese per poi darci nuovamente alla macchia, alla diaspora aromatizzata al fetore dell’odio reciproco? I problemi sono divenuti tanti perché la sinistra di alternativa, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, Sinistra Anticapitalista, Potere al popolo!, Partito Comunista Italiano e via di seguito, pretende di guardare in direzioni molteplici, al di là dei valori e dei programmi che la potrebbero unire: c’è chi vuole conservare degli assessorati regionali e quindi si schiera con il PD a livello regionale anche se pare che sul piano nazionale sia “improbabile” (un margine di possibilità rimane dunque?) un ritorno con un invertebrato centrosinistra; c’è chi vuole presentarsi col simbolo del vecchio partito di Gramsci e Togliatti, sottolineando che in politica estera le posizioni sono un tantinello differenti da quelle più libertarie di Rifondazione e Sinistra Anticapitalista; c’è chi come queste ultime due prova a fare da pontiere tra le altre forze che si sbeffeggiano, si insultano sui social ogni giorno. Poi c’è il magister, colui che dovrebbe riunire con la sua opera di amministratore locale tutto questo pandemonio, che non mette veti, ma il cui ruolo ancora è misterioso, poco comprensibile: si candiderà, non si candiderà? Farà il “leader” della coalizione? Una coalizione priva persino di un nome. E se non hai nemmeno idea di come vuoi chiamarti… beh… o sei lo smemorato di Collegno, ed allora poverello non hai colpa della tua amnesia, o sei un incosciente politicamente, nel senso letterale del termine: dov’è la tua coscienza politica, cara coalizione inesistente della sinistra di alternativa. Ecco, forse il nome per ora, provvisoriamente, potrebbe essere questo: la Coalizione inesistente della sinistra di alternativa. Suona anche bene, ma promette male. Il tempo stringe, lo smarrimento tra chi ogni giorno dedica davvero la propria vita ad una causa sociale e politica aumenta, l’assoluta indiferrenza della popolazione, dei cittadini verso tutto ciò è esponenziale, quasi incommensurabile. Se non riusciamo a dare vita ad un progetto che abbia la dignità di sé stesso, se costruiamo ancora una volta una ipotesi settaria, evitando di confrontarci con chi è costantemente tentato dal riformare il “centrosinistra”, non riusciremo mai a fare breccia proprio su questo presupposto, lasciando campo libero a chi è più seducente soltanto perché più grande in Parlamento, più grande (anche se si sta notevolmente ridimensionando) nel Paese ma per niente disposto a cambiare la vita dei più deboli, degli sfruttati osservandola dal loro punto di vista piuttosto che da quello dei padroni. Dobbiamo fare una scelta: non è tra coerenza e incoerenza, tra rilevanza pragmatica e irrilevanza onirica dei sognatori rivoluzionai. E’ la scelta tra i valori e i tatticismi di bottega, tra i programmi veri che ci possono unire e il disprezzo reciproco che ci divide in nome di una presunzione che non fa parte della tradizione culturale della sinistra comunista e della sinistra in generale. La ricerca di questa unità culturale e programmatica la dobbiamo prima di tutto a chi ha perso tutto: anche un punto di riferimento politico nella misera vita che già conduce. Diamoglielo questo punto di appoggio. Almeno questo facciamolo. E non è poco. Non sarà poco.
Non è solo un problema di unità della sinistra. Il problema è che questa sinistra ha divorziato dai ceti popolari. O si ritorna a mettere al centro il lavoro e i problemi e le inquietudini dei lavoratori e si smette di fare l’ala sinistra del liberismo oppure non lamentiamoci se il paese vira a destra. Ripartiamo dalla Costituzione a partire dall’art. 1, lavoro e sovranità.
E non saranno leader demagogici come De Magistris a contribuire alla ricostruzione di una sinistra di classe in Italia.