Il governo gialloverde si prepara a varare la cosiddetta “autonomia regionale differenziata”. Un progetto che completa il disegno della Lega senza che i cittadini se ne accorgano. di Stefano Poggi* – Jacobin Italia Nel silenzio e nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica nazionale, il governo gialloverde si prepara a varare il frutto della trattativa condotta per attivare la cosiddetta “autonomia regionale differenziata” per Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto: il passaggio di massimo 23 competenze dallo stato alle regioni secondo l’articolo 116 della Costituzione. Si corona così la strategia politica della “nuova” Lega di Matteo Salvini: mantenere il tradizionale radicamento al nord con il tema delle autonomie regionali, conquistando al tempo stesso nuovo consenso al centro e al sud grazie a un inedito nazionalismo italiano. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Viesti, docente di economia all’Università di Bari) che nel gennaio 2019 ha pubblicato per Laterza un e-book scaricabile gratuitamente (“Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale”) in cui denuncia gli aspetti più preoccupanti di una riforma che sconvolgerebbe l’assetto istituzionale italiano, delegando nuovi poteri e risorse a tre regioni che esprimono quasi un terzo della popolazione italiana e il 40% del Pil. Perché ha scelto un’espressione forte come «secessione dei ricchi» per descrivere il processo di autonomia differenziata di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto? Bisogna intanto premettere che le carte attualmente in discussione fra regioni e governo sono segrete. Io mi rifaccio quindi al contenuto della pre-intesa siglata dalle regioni e dal governo Gentiloni il 28 febbraio 2018. All’articolo 4 di quell’intesa si trova il punto che fa pensare a una «secessione dei ricchi»: un meccanismo finanziario che prevede che – dopo un anno di transizione – si abbandoni progressivamente il criterio della spesa storica e si inizi a riferirsi a fabbisogni standard parametrati sul gettito fiscale regionale. Si stabilisce quindi il principio che chi vive in regioni a reddito più alto ha diritto a un livello maggiore di servizi. Un principio profondamente sbagliato e in contrasto con la Costituzione: almeno in teoria, tutti i cittadini italiani dovrebbero avere accesso agli stessi servizi fondamentali indipendentemente da dove vivono. Ma non finisce qui: una volta stabilito questo principio, bisogna vedere chi decide come applicarlo. Secondo la pre-intesa si tratterebbe di valori definiti regione per regione da un organismo tecnico paritetico Stato-Regione. Si tratterebbe di una cosa gravissima, perché definire i fabbisogni standard – cioè a quanto di ogni servizio ha diritto ogni cittadino – è una grande operazione politica, che richiede la massima trasparenza e un forte controllo parlamentare. Quindi è indispensabile che essa avvenga alla luce del sole, con simulazioni approfondite sugli effetti concreti sui diritti dei cittadini prodotti dai parametri stabiliti. Insomma, alla base dell’autonomia differenziata c’è anche un deficit di democrazia? Dare un potere di questo tipo a una commissione tecnica è molto grave dal punto di vista democratico. È un punto rilevantissimo che riguarda chi decide cosa in una democrazia. Purtroppo, questo non sarebbe neanche il primo caso: dal 2010 al 2018 sono stati definiti in modo similare i fabbisogni standard dei comuni. Una vicenda oscura e nota solo a cinque persone in tutta Italia, ma importantissima per esempio per il livello di welfare comunale effettivamente erogato. In un periodo in cui le risorse pubbliche sono limitate se non decrescenti, se si stabiliscono fabbisogni più alti per una regione o per un comune, questo avrà sicuramente un impatto su un’altra. Per altro lo stesso principio di territorialità alla base di questo ragionamento è estremamente discutibile, perché basta che qualsiasi cittadino cambi residenza spostandosi da una regione all’altra per modificare i propri diritti di cittadinanza. Un’idea assolutamente non condivisibile. Il modo in cui si sta conducendo la trattativa, così come i suoi esiti verosimili, danno l’impressione che i presidenti di regione si considerino detentori di una sovranità vissuta in contrasto con quella nazionale, e soprattutto sottratta ai legittimi rappresentanti del popolo che siedono in parlamento. La prevalenza del livello regionale non avviene solo a scapito del livello nazionale, ma pure dei livelli sub-regionali, come ad esempio i comuni. In questo senso ho trovato molto interessante la lettera aperta del sindaco di Milano, nella quale si esprimeva una forte contrarierà all’autonomia regionale da un punto di vista municipale. D’altro canto, non è affatto detto che – volendo decentrare i servizi – il livello migliore sia quello regionale. Questo non è d’altronde storicamente il livello dell’autogoverno del nostro paese, che è tradizionalmente urbano. Ma è il meccanismo con il quale si prenderanno queste decisioni che mi preoccupa di più. Questa è un’intesa è a scatola chiusa: la prassi di attuazione dell’articolo 116 prevede che il Parlamento possa solamente approvare o respingere l’accordo stipulato fra regioni e governo, senza possibilità di emendarlo. Una procedura che ha sollevato i dubbi di moltissimi costituzionalisti: il Parlamento è di fatto privato dei poteri decisionali assegnatigli dalla Costituzione. Cosa più grave ancora, l’intesa non potrà essere soggetta a referendum abrogativi, perché la corte costituzione ha escluso questo tipo di consultazione sulle intese fra governo e regioni. Per come si sta configurando questa intesa, il Parlamento sarà probabilmente chiamato ad approvare solo uno schema di massima, mentre il processo più importante – compresa la quantificazione finanziaria delle nuove deleghe alle regioni – verrà demandato a commissioni paritetiche. Il processo attuativo sarà quindi completamente slegato al controllo del Parlamento, e potrà essere ridiscusso solo in queste commissioni paritetiche, dove tutto fa pensare che le Regioni non avranno alcuna intenzione di mettere in discussione accordi a loro favorevoli. Si tratta di un processo che sovverte il normale corso della definizione della politica economica di un paese: si può essere contrari al Jobs Act, sapendo però che il Parlamento ha il potere eventualmente di ridiscuterlo e modificarlo. Non in questo caso, dove la decisione non è reversibile, dato che il Parlamento si priva del potere di modifica e di controllo sull’attuazione della riforma. Il modello di fondo all’autonomia regionale differenziata si basa su un’idea di competizione fra enti locali – una logica che, come ricordava, è già in atto da anni per quanto riguarda i comuni. Viene da chiedersi quanto possa reggere un paese in cui si promuove dall’alto una logica intimamente disgregativa. Siamo allo stesso punto di prima: quelli in discussione sono sostanzialmente criteri di riparto di un totale dato di risorse pubbliche – e quindi di servizi erogabili. Questa logica è estremamente pericolosa perché crea una situazione di mors tua vita mea: quanto meno faccio ottenere agli altri, tanto più ottengo io. Si tratta dello stesso identico principio che abbiamo visto all’opera nel settore universitario e di cui ho parlato in La laurea negata(Laterza, 2018): si introducono parametri di ripartizione delle risorse per via regolamentare e senza che ci sia un controllo o anche solo una discussione parlamentare a riguardo. Modalità competitive fra comuni o fra università sono accettabili nella misura in cui producono un miglioramento per tutti, magari tramite il diffondersi di buone pratiche. Invece avviene il contrario: chi ottiene meno risorse viene privato della possibilità di migliorare. Una strada molto pericolosa perché avviene in un Italia in cui gli effetti della crisi sono capillarmente diffusi in tutte le aree del paese, creando una corsa all’accaparrarsi le risorse disponibili. Ma pericolosa anche perché nel nostro paese è “morta la politica”: non esistono più organizzazioni nazionali che possano svolgere il tradizionale compito di mediazione degli interessi territoriali. Di fronte a questi due fattori diventa molto difficile prevedere cosa possa succedere nei prossimi dieci anni. Di sicuro le tendenze disgregatrici potrebbero accentuarsi notevolmente. E questo certamente non è un bene. Lei mette apertamente in discussione l’attualità delle regioni a statuto speciale. In effetti, invece di andare verso un’uniformità amministrativa, l’Italia sembra destinata a un ulteriore spezzettamento: regioni a statuto ordinario, regioni ad autonomia differenziata, regioni a statuto speciale. Per non parlare delle province sopravvissute ai vari progetti di soppressione. Non sarebbe l’ora di ragionare su un riordino complessivo degli enti locali? In un’ottica di medio periodo, l’assetto attuale delle competenze sub-nazionali richiederebbe una bella revisione. Le regioni a statuto speciale – nate più di settant’anni fa in condizioni completamente diverse dalle attuali – nascondono dei veri e propri privilegi del tutto ingiustificati. Non per niente abbiamo assistito perfino a migrazioni di comuni dal Veneto al Trentino o al Friuli perché lì c’erano condizioni più favorevoli. Invece di promuovere l’autonomia differenziata si sarebbe dovuto avvicinare le regioni a statuto speciale a quelle a statuto ordinario. C’è poi il tema del funzionamento delle regioni: le maggiori competenze regionali hanno – al nord come al sud – portato le regioni a politiche sempre più rivolte al proprio interno a scapito dei servizi interregionali. Nel servizio ferroviario regionalizzato, per esempio, stanno venendo meno i collegamenti Intercity e a medio raggio. Ma le regioni non sono gli unici enti locali del nostro ordinamento. Abbiamo eliminato le province con un processo più ragionieristico che di sostanza, nonostante fossero degli enti di area vasta comunque significativi. Non parliamo poi delle aree metropolitane, per ora un totale fallimento incapace di governare i territori. Ci troviamo quindi con città di medie e grandi dimensioni che hanno una capacità finanziaria e politica al di sotto delle proprie necessità. E di fronte a casi come quello di Roma che richiederebbero una forte capacità di governo comunale, si spostano poteri e risorse verso le regioni. In un paese serio, bisognerebbe fare un bilancio del regionalismo. Perché non è detto, tra l’altro, che gli interessi della politica e della burocrazia regionali siano coincidenti con quelli dei loro cittadini. L’interesse della politica e dell’amministrazione regionale è quello si sottrarre poteri allo stato senza cederli ai comuni, così da diventare dei luoghi di intermediazione di risorse più rilevanti. Ma non è automatico che per i cittadini di quei territori avere delle regioni così potenti sia meglio: spesso dipende dalle singole materie. Il principio leghista per cui più si sposta dallo Stato alle regioni meglio è non ha alcun fondamento tanto nella letteratura internazionale quanto nelle analisi giuridiche ed economiche. E tanto meno così si avvicina il potere ai cittadini, perché gli unici veri enti di prossimità sono i comuni. In Veneto l’autonomia è stata al centro del dibattito pubblico fin dall’estate 2017. L’impressione invece è che nel resto d’Italia la questione sia completamente passata in secondo piano, nonostante la sua evidente rilevanza nazionale. Il quadro è diverso da caso a caso. In Veneto la discussione è ampia e incrocia tendenze anche culturali presenti nella società veneta: la partecipazione al referendum è stata significativa, anche se non plebiscitaria. In Lombardia il referendum è stato vissuto con maggiore distacco: a Milano si è recato a votare un elettore su quattro e in nessuna provincia ha votato più del 50% degli aventi diritto. Negli ultimi mesi non è passato giorno senza che i principali quotidiani veneti abbiano parlato dell’autonomia, mentre sui loro omologhi lombardi la questione è stata totalmente trascurata. Completamente diversa è la situazione in Emilia-Romagna, dove i cittadini non sono stati coinvolti in alcuna consultazione e l’amministrazione ha preso una posizione politica al principio di richieste ragionevoli, che poi con l’approssimarsi delle elezioni regionali si è trasformata in un fiancheggiamento totale delle richieste di Lombardia e Veneto, cercando in questo modo di contrastare l’avanzata della Lega sul suo stesso terreno. In sostanza, al di fuori del Veneto, tutti gli altri cittadini italiani sono disinformati. Non sanno assolutamente niente della questione. Questo è dovuto all’assenza di una spinta politica di opposizione: il Partito Democratico non si è mai espresso sul tema, rinunciando a fare politica! La Lega invece sta coronando il suo sogno: fare la secessione dei ricchi nei suoi territori senza che gli altri italiani se ne accorgano. A questo disegno si sarebbero dovute opporre le altre forze politiche, ma nessuna di esse ha preso minimamente posizione. Se confrontiamo questa vicenda con altre che riempiono ogni giorno i giornali, il silenzio è assordante: non solo per disinteresse, ma anche per una deliberata strategia comunicativa del governo. E questo è un ulteriore gravissimo vulnus nella nostra democrazia sostanziale: non solo il Parlamento non può discutere la questione, ma gli italiani non ne sanno assolutamente niente! Eppure, la possibilità di autonomia differenziata è stata inserita in Costituzione dal centrosinistra, dando seguito al lavoro della Bicamerale D’Alema. Alla base della «secessione dei ricchi» c’è quindi una riforma costituzionale appoggiata all’epoca da gran parte delle forze politiche e sociali progressiste. Come spiega questa decennale subalternità alla Lega in tema di regionalismo e ordinamento dello stato? Quello che sta succedendo oggi è la ripetizione di quello che è successo vent’anni fa, cioè il tentativo di inseguire la Lega sul suo stesso terreno. Questa volontà politica diede il via a una riforma del Titolo V sicuramente affrettata. Confesso di aver votato sì al referendum confermativo di quella riforma: ma alla prova del tempo sono emersi sicuramente alcuni problemi. Anche se il Titolo V va visto nel suo insieme: all’articolo 117 c’è la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, all’articolo 119 c’è la centralità del livello nazionale nella definizione della finanza pubblica, all’articolo 120 ci sono i poteri sostitutivi centrali. Oggi si sta forzando il Titolo V andando a seguire la Lega sul terreno peggiore in assoluto: quello della riaffermazione dei principi di egoismo e di invidia territoriale. Al posto di contrastare risolutamente queste tendenze, si cerca di blandirle. È quello che sta facendo l’Emilia-Romagna a guida Pd, è quello che stanno facendo i partiti. Il sale della democrazia è il confronto fra destra e sinistra. Quando questo confronto viene meno, a trarne vantaggio sono sempre le forze di destra. Con queste questioni non stiamo trattando di piccoli dettagli. Stiamo modificando profondamente gli assetti politici del nostro paese senza che il parlamento o l’opinione pubblica vengano coinvolti: quando si imbocca una strada come questa è difficile capire dove si va a finire.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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