Sul sostegno al reddito, al di là dell’impostazione di workfare più che di welfare, la sfida sarà implementare vere politiche attive, stante il disastroso stato dei centri per l’impiego e dei servizi sociali. Sulle pensioni, di fatto si introduce l’ennesimo regime derogatorio provvisorio, senza affrontare i nodi strutturali del sistema.
Il detto nomina sunt consequentia rerum va attribuito all’imperatore Giustiniano che, evidentemente ignaro degli sviluppi che il marketing politico avrebbe avuto nei successivi millenni, pensava che i nomi dovessero corrispondere all’essenza delle cose. Oggi siamo invece costretti per legge ad usare nomi buoni per la comunicazione ma che, come suol dirsi, poco c’azzeccano (al lettore immaginare fin dove potrebbe spingersi in futuro la nuova tecnica legislativa).
Nello specifico, dobbiamo parlare di “reddito di cittadinanza”, perché così ci impone l’art. 1 del decreto legge n. 4/2019, anche se il nuovo strumento, che ha pregi e difetti, poco ha a che fare con il reddito di cittadinanza discusso in letteratura, traducendosi, piuttosto, in un sussidio di disoccupazione condizionato, ancorché relativamente adeguato nell’importo; di “pensione di cittadinanza” (sempre l’art. 1), anche se la pensione di cittadinanza in Italia c’è già (l’assegno sociale) e il nuovo strumento si limita di fatto ad integrare, a favore di un numero limitatissimo di pensionati, con un contributo per l’abitazione, le prestazioni già in essere (il valore delle pensioni minime – assistenziali e previdenziali – per gli ultrasettantenni è già oggi superiore al livello assicurato dalla componente di integrazione al reddito della “pensione di cittadinanza”).
Analogamente, l’art. 14 dello stesso decreto legge 4/2019 ci impone di parlare di “pensione quota 100” laddove i contenuti della norma sono diversi. Innanzitutto perché il raggiungimento della quota 100 non ha nessun valore ai fini del pensionamento: quando si usa la locuzione “quota”, si intende che essa possa essere raggiunta con diverse combinazioni di età e anzianità contributiva; in questo caso, invece, devi avere almeno 62 anni e almeno 38 anni di lavoro; di fatto, si tratta di un requisito di pensionamento che fissa età ed anzianità contributiva minime, analogo, ad esempio, al preesistente requisito di pensionamento anticipato nel contributivo di “64 anni di età con almeno 20 anni di contributi”, che nessuno ha mai pensato di ribattezzare “quota 84”, così come tutti gli altri. Inoltre, il doppio requisito implica che potranno andare in pensione al raggiungimento di quota 100 solo coloro che hanno iniziato a lavorare esattamente al compimento dei 24 anni (assumendo, da quel momento, continuità lavorativa); se si è iniziato prima, bloccherà il requisito anagrafico; se si è iniziato dopo, bloccherà il requisito di anzianità contributiva, cosicché, in ambedue i casi, sarà necessario raggiungere un numero più elevato di 100. Infine, anche a prescindere da tutto ciò, l’imposizione di un ulteriore tempo di attesa fra il momento del raggiungimento dei requisiti e il momento dell’effettivo pensionamento (le cosiddette “finestre”) fa comunque sì che la somma minima di età e anzianità contributiva necessaria sia superiore a 100 (al meglio, 100 e 6 mesi per i dipendenti privati, 101 per i pubblici).
Al di là della digressione nominalistica, comunque non secondaria, proviamo a fare qualche considerazione sugli interventi contenuti nel decreto legge, ora all’esame del Parlamento.
Tanto nel caso del “reddito di cittadinanza” quanto nel caso di “quota 100” l’elemento positivo sta nella decisione di investire significative risorse pubbliche, l’elemento problematico nella realizzazione.
Per quanto possiamo considerare il precedente “Reddito di inclusione” (ReI) uno strumento tecnicamente più avanzato del nuovo “Reddito di cittadinanza” (RdC), ora gli stanziamenti più che raddoppiano, portandosi nel 2020 a oltre 7 miliardi. E’ una cifra ancora non adeguata ma importante, che finalmente viene destinata alla lotta alla povertà e alla disoccupazione. Potrebbe portare a risultati significativi, se ben spesa. Purtroppo l’implementazione, a partire dal disastroso stato in cui versano i servizi per l’impiego e i servizi sociali comunali, non sarà facile e richiederà tempo e competenze politico amministrative di cui l’attuale governo ancora non sembra disporre (vedi in proposito l’articolo di Giulio Marcon (http://sbilanciamoci.info/il-reddito-di-cittadinanza-del-governo-tra-luci-e-ombre/).
Quanto a quota 100, Sbilanciamoci ha più volte evidenziato come la riforma Monti-Fornero del 2011, rispondendo ad immediate necessità di far cassa sulle pensioni, abbia non solo rotto l’equilibrio di un sistema pensionistico che stava lentamente assestandosi, ma anche provocato ricadute significative sul sistema economico nazionale, col rallentamento del ricambio generazionale e lo spiazzamento dell’occupazione giovanile (http://sbilanciamoci.info/?s=pensioni&submit=Cerca).
Se in una situazione di piena occupazione il posticipo dell’età di pensionamento può aumentare l’occupazione e la produzione, in una condizione di prolungata recessione, come quella italiana, si è tradotto nell’esclusione dal mercato del lavoro e nella marginalizzazione proprio delle leve più giovani, più preparate e disponibili.
Inoltre, in un sistema pensionistico che, in virtù del principio contributivo (la pensione corrisponde ai contributi che hai versato), avrebbe potuto e dovuto permettere libertà nelle scelte di pensionamento (la riforma del 1995 prevedeva libera scelta fra i 57 e i 65 anni di età), un legislatore autoritario ha imposto una serie di requisiti stringenti, che hanno dovuto poi essere integrati da una nutrita selva di regimi derogatori provvisori, generando insicurezza, scompensi e paradossi (si pensi solo agli “esodati”).
Infine, la riforma del 2011 non ha in alcun modo toccato il problema delle (non rosee) prospettive pensionistiche dei giovani, che rischiano di ritrovarsi con carriere contributive povere e discontinue in un sistema, qual è quello contributivo, che può assicurare pensioni dignitose solo a condizione che vi siano salari sufficientemente elevati, adeguate aliquote contributive e carriere lunghe e continuative.
Per quanto detto, sarebbe utile ed urgente intervenire sul sistema pensionistico per flessibilizzare le modalità di uscita dal mercato del lavoro, per razionalizzare il sistema e per assicurare che le generazioni più giovani possano effettivamente costruirsi adeguati diritti pensionistici ed abbiano concreti incentivi a farlo, in una prospettiva che coniughi (è possibile) equità, adeguatezza delle prestazioni e sostenibilità della spesa.
Di nuovo, dunque, ben venga la scelta governativa di investire risorse significative sulle pensioni (4 miliardi nel 2019, 8 nel biennio successivo). L’implementazione della misura, tuttavia, qualche perplessità la genera. Infatti, lungi dal prefigurare un qualche superamento della riforma Monti – Fornero, o di intervenire almeno sulle maggiori criticità, o anche solo di razionalizzare il sistema, l’intervento su “quota 100” si limita ad arricchire la selva di “regimi speciali” e trattamenti ad hoc per specifiche categorie e coorti di pensionati, senza un’ottica di sistema e, piuttosto, con un quasi esplicito richiamo alle specifiche esigenze delle imprese del Nord di mettere a riposo operai e impiegati maschi assunti negli anni ’70.
Così, ora l’età di pensionamento è fissata a 67 anni con almeno 20 anni di contribuzione, oppure, a prescindere dall’età, al raggiungimento dei 42 anni e 10 mesi di contribuzione (1 anno in meno per le donne), cui devono aggiungersi dai 3 ai 6 mesi per l’apertura delle cosiddette “finestre di pensionamento”. C’è “quota 100″, come descritta, ma anche regimi derogatori per lavoratori che hanno iniziato precocemente l’attività lavorativa, così come per quelli che hanno svolto attività usuranti. Altri regimi derogatori si applicano dai 63 anni ai lavoratori che soddisfano i requisiti per l’”APE” e per le donne sopra i 58 anni che possono scegliere “opzione donna”, a patto, in ambedue i casi, di avere una lunga carriera contributiva e di pagare un prezzo significativo (solo nell’”APE sociale” è il pubblico a farsene carico).
I lavoratori assoggettati interamente al regime contributivo possono poi, se maturano una pensione di importo pari almeno a 2,8 volte l’assegno sociale, pensionarsi a 64 anni (con almeno 20 anni di contribuzione), altrimenti a 67 (se raggiungono 1,5 volte l’assegno sociale) oppure a 71 anni (e in questo caso bastano almeno 5 anni di contribuzione). Esistono ulteriori requisiti aggiuntivi, requisiti anagrafici e contributivi in parte diversi per pubblici e autonomi, così come per i beneficiari di assegni sociali, senza contare che i requisiti di pensionamento aumentano con l’aumento della speranza di vita, ma non tutti. Vi sono poi i fondi di solidarietà, attraverso i quali le parti sociali scelgono di finanziare ulteriori anticipi pensionistici in specifici settori.
Se vi siete persi, era lo scopo. Il fatto è che, come minimo, il sistema avrebbe bisogno di una semplificazione e dell’introduzione di regole certe ed uniformi. “Quota 100” e le altre norme contenute nel decreto (nella sostanza, proroghe di precedenti regimi derogatori e parziale e temporaneo congelamento degli aumenti dei requisiti per il pensionamento solo contributivo), invece, non semplificano, non superano, ma proseguono nell’individuare soluzioni-ponte ad hoc per le specifiche esigenze delle diverse costituencies elettorali, senza un’ottica di sistema e senza la volontà di assicurare che il sistema pensionistico possa ritrovare quel difficile equilibrio che pure stava ritrovando prima della crisi.
Equilibrio che, vale la pena di ricordarlo, negli anni recenti non è mai stato messo in discussione dalle dinamiche interne al sistema previdenziale, bensì piuttosto da quelle generali economiche con, ad esempio, il calo del PIL nel 2009 (-5,2%) che, da solo, è responsabile per due terzi dell’impennata del rapporto fra spesa pensionistica e PIL in quell’anno (dal 14,3% al 15,5%, con 0,8 punti dovuti alla recessione). Il che ci rimanda, una volta di più, agli indissolubili legami fra sistema pensionistico e sistema economico. Il primo non può essere considerato in isolamento dal secondo e fonda comunque la propria affidabilità su un’economia sana, che richiede adeguate politiche di sviluppo, che non possono più basarsi esclusivamente sul contenimento del costo del lavoro, degli oneri contributivi e delle imposte, la strategia perseguita negli ultimi anni con risultati fallimentari.