Quanto più la disperazione e il dolore gravano sul torbido presente, tanto più si fa intensa (…) bramosia di una vita più bella». Così uno dei grandi storici del Novecento nel suo capolavoro, L’autunno del medioevo, spiega la tensione verso le caligini di un sogno che offuschino, per lo meno un po’, i «toni crudi della vita». Una vita che, a sinistra, ha davvero i «toni crudi» di un rigido inverno, per usare ancora l’espressione di Huizinga. E così noi continuiamo a parlare di un’apparenza come se fosse realtà, atterriti di vivere in un paese senza sinistra. La politica-politicante nella quale siamo immersi è il regno delle fantasmagorie. La politica non può farne a meno. Persino nei «trenta gloriosi», età dell’oro della politica, si evocavano atmosfere apparenti, ma non erano sostitutive delle analisi, delle prove di realtà. Se vogliamo davvero sottoporci ad una prova di realtà, una prova dove le «cose» siano la sola giustificazione delle «parole», la conclusione non mi pare proprio che possa lasciare dubbi. La sinistra dell’«antitesi», quella che cerca le radici del regresso che ha colpito le classi subalterne negli ultimi decenni, è minoranza esigua e frazionata, dunque ininfluente sulle dinamiche sociali e politiche. Ed il Pd non è l’erede in chiave «moderna» della sinistra storica, ma ne nega i presupposti fondamentali. La direttrice di questo giornale chiede, retoricamente, «perché alle primarie si [siano presentati] tre portavoce delle politiche di Renzi» (il manifesto 2 marzo). La risposta, compresa nella domanda è che le politiche di Renzi, al fondo, sono le politiche su cui il Pd è costruito. Il renzismo non è stato un corpo estraneo che ha invaso dall’esterno un corpo di differente composizione organica, bensì una sorta di cartina di tornasole rivelatrice del livello di amalgama di quella composizione. Questa «cosa» che si sviluppa dal Pds al Pd secondo lineamenti sorrettivi estremamente coerenti, non ha perso il suo popolo per distrazione, ma semplicemente perché non l’ha più riconosciuto come tale, come un soggetto di trasformazione dell’esistente. Una «cosa» che ha ormai quasi trent’anni di storia si misura, si definisce secondo le logiche e i fatti di questa storia, non secondo le autorappresentazioni della propria comunicazione, o meglio, propaganda, ad uso di posizionamento elettorale. E su questa storia esiste ormai una relativamente ampia letteratura di studi seri di economisti, sociologi e, sebbene in numero più limitato, di storici. E gli studi ci dicono con chiarezza che quella è la storia di una parte politica componente importante e fattiva della ragione e dell’ordine neoliberista in Italia. Una componente che ha interiorizzato fin dagli anni Novanta il There is no alternative della Thatcher e che sulla base di siffatta ideologia (perché di ideologia si tratta) si è mossa coerentemente nelle sue politiche economiche e sociali. Al momento della fondazione del Pd Veltroni, con un lampo di onestà intellettuale, rivendicò la collocazione reale della sua organizzazione definendola «non di sinistra, ma riformista». Dove «riformista» significava, sia nella pratica sia nei riferimenti teorici, il completo rovesciamento della storia del riformismo socialista. Poi l’uso del termine «sinistra» per indicare il Pd è tornato e se ne comprendono benissimo le ragioni. Sul piano della pura rappresentazione della geografia elettorale «sinistra» è comunque opposta a «destra», una vera e propria rendita di posizione. La nuova segreteria Zingaretti, benefica per un Pd che sarà meno autoreferenziale, più aperto anche a nuove interlocuzioni, parzialmente, molto parzialmente autocritico, non potrà certo cambiare la natura di un partito le cui fondamenta si sono solidificate sotto il peso di trent’anni di storia. Una natura, come hanno dimostrato gli studi cui ho fatto sopra rifermento, fatta di strutture materiali (anche i riferimenti teorici sono strutture portanti) non delle evanescenze verbali che emergono ad ogni mutamento di stagione politica. Ora la nuova stagione che sembra essersi aperta, nel tentativo di archiviare il renzismo, dice di essere alla ricerca dell’«anima sociale» perduta. (Provenzano, il manifesto, 2 marzo). Un’espressione esemplare di fantasmagoria. Se nell’area Pd e dei suoi satelliti la sinistra non esiste per incompatibilità dei fondamenti, nell’area che invece vorrebbe costruire il nuovo proprio a partire dai fondamenti storico-teorici del movimento operaio e socialista, la sinistra non esiste perché è irrilevante sul piano dei numeri, perché è ammalata di settarismo. Tra i due piani vi è un evidente nesso. «Riunire la sinistra non è il nostro obiettivo. Per noi serve un soggetto nuovo…», ha affermato perentoriamente qualche giorno fa Viola Carofalo (il manifesto, 27 febbraio). Come se costruire una rete unitaria tra tutte quelle forze che condividono l’ispirazione della critica dell’economia politica, che ragionano in termini di analisi delle forme di accumulazione del capitale non sia già, di per sé, uno straordinario elemento di novità. Sappiamo bene che vi sono anche responsabilità del sindacato nella scomparsa di un popolo. Ma considerare perduta la Cgil di Landini per il processo complessivo di ricostruzione della sinistra perché Calenda e molti altri incompatibili sono andati ad una grande manifestazione sotto la bandiera del sindacato, significa rifiutare un confronto con un popolo che ancora c’è. Tessere le fila di una rete fatta di esperienze ed appartenenze diverse non è un compito facile. Occorrono ripensamenti continui. Occorre saldezza teorica coniugata con flessibilità politica. Il tutto è certamente molto faticoso. Lo è molto meno pensare che la propria esperienza locale, sia pure importante, possa diventare un modello generale. Un’altra forma del «sogno di una vita più bella».

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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