Crisi rinviata, anzi congelata. Pace fatta ma per finta. La sfida sulla Tav si chiude secondo le regole più antiche del mondo in politica: con un compromesso posticcio che rinvia a data da destinarsi un’esplosione ormai inevitabile. Merito di Giuseppe Conte, che come premier avrà i suoi limiti ma in questi casi tira fuori il meglio dalle sue doti leguleie. La lettera che invia al presidente di Telt du Mesmil e al dg Virano è un capolavoro di sfumature. Conte chiede di «astenersi da ogni ulteriore azione che possa produrre, a carico dello Stato italiano, vincoli giuridici di sorta» e quindi di «soprassedere dalla comunicazione dei capitolati di gara». Allo stesso tempo chiede di «adoperarsi per non pregiudicare gli stanziamenti finanziari posti a disposizione dalla Ue». Conciliare le due esigenze sembra impossibile, dal momento che i fondi Ue dipendono proprio dall’avvio dei bandi. Ma l’avvocato-premier individua la scappatoia. In Francia i bandi partono da una prima fase, l’Avis de marchés, che serve a scremare, tra le aziende interessate agli appalti, quelle più credibili. Questa fase, che durerà alcuni mesi, permette di quadrare il cerchio. I bandi partiranno lunedì, anche se in Italia è severamente proibito chiamarli col loro nome, ma senza alcun vincolo giuridico. Telt chiarisce infatti che non pubblicare i bandi è impossibile perché «un nuovo rinvio di tali pubblicazioni oltre il mese di marzo» implicherebbe la perdita dei finanziamenti europei col rischio di «chiamare in causa la nostra responsabilità civile e amministrativa». Quindi domani gli «inviti a presentare candidature» partiranno regolarmente. Telt si impegna tuttavia a non procedere col passaggio successivo, i capitolati, senza l’avallo dei governi italiano e francese e di inserire negli avvisi un «esplicito riferimento» alla facoltà per gli appaltanti di «non dar seguito alla procedura senza che ciò generi oneri». Non è una novità. E’ quella clausola di dissolvenza che Telt stessa aveva proposto nel carteggio con il governo italiano citato nella lettera di ieri. Neppure la scelta di partire con l’Avis de marchés e non con i capitolati è una novità. Telt si sarebbe mossa così comunque. Nel concreto dunque, bisognerebbe dire che hanno vinto Salvini e i pro Tav, dal momento che il passo che verrà fatto lunedì è l’avvio concreto del proseguimento dell’opera. Ma la sostanza e l’immagine in politica non sempre coincidono, e per i politici il secondo aspetto è spesso più rilevante del primo. Su quel fronte a uscire sconfitto è proprio Salvini. Perché è vero che verrà mosso un passo decisivo verso il sì alla Tav e che, per bloccare la procedura al termine di questa prima fase, sarebbe necessario un passaggio parlamentare nel quale i 5S e gli altri No Tav, essenzialmente Sinistra italiana, sarebbero sconfitti. Ma è altrettanto vero che formalmente quel passo senza ritorno sul quale puntava la Lega non c’è stato e che sulla carta si tratta invece dell’ennesimo rinvio. Una macchina propagandistica pentastellata per una volta di straordinaria efficienza riesce a far apparire il compromesso una clamorosa vittoria. I 5S stelle dichiarano tutti, a raffica, a partire da Di Maio che è il primo ad annunciare l’imminente «soluzione positiva». Poco dopo esulta su Fb: «Oggi abbiamo ottenuto una grande vittoria che è il rispetto del contratto». Tripudiano più degli altri Toninelli e la sindaca di Torino Appendino, che senza intesa rischiava forte di giocarsi la poltrona. Silenzio quasi assoluto invece dagli spalti leghisti. Salvini, prima di festeggiare il genetliaco e dopo le dichiarazioni di rito sulla solidità dell’esecutivo, si limita a ricordare che «se non c’è accordo nel governo si possono pronunciare il parlamento o gli italiani col referendum». Le fonti leghiste giurano di essere soddisfatte del risultato concreto perché, chiacchiere a parte, i bandi partiranno. Ma in politica l’immagine è tutto e stavolta Salvini, l’asso pigliatutto della propaganda, è stato battuto al suo stesso gioco. Le opposizioni peggiorano comprensibilmente la sua situazione bersagliandolo senza tregua, a partire da Chiamparino, secondo cui «senza i capitolati lunedì la Tav non si fa» e prepara quindi il referendum. Lo scontro sulla Tav lascia il governo in piedi, ma ferito a morte, con un Salvini inferocito e un Di Maio consapevole di poter sostenere la finzione della vittoria solo per pochi mesi.