In 37 Paesi e in 130 città d’Europa l’acqua è tornata in mani pubbliche. In Italia una proposta di legge di ripubblicizzazione pentastellata avrebbe dovuto iniziare l’iter parlamentare il 25 marzo, invece è slittata sine die, bersagliata da 240 emendamenti e soprattutto dall’ostilità della Lega. Nel 2007, attraverso un’ampia consultazione portata avanti da associazioni nazionali, comitati locali, pezzi del sindacato, esperti e singoli cittadini, fu predisposta una proposta di legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua, oggetto poi di una campagna finalizzata alla raccolta delle 50.000 firme necessarie per la sua presentazione. Protagonista di questa campagna furono centinaia di esperienze locali e nazionali riunite nel Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua che in sei mesi organizzò banchetti, convegni, incontri e dibattiti culminati in oltre 400.000 sottoscrizioni autenticate (8 volte il numero richiesto dalla normativa). Tale esperienza di studio e mobilitazione rappresentò la base per la successiva campagna referendaria del 2010/2011 contro la privatizzazione dell’acqua introdotta, nel novembre 2009, dal cosiddetto “decreto Ronchi”. Questa volta furono raccolte oltre 1,4 milioni di firme autenticate attraverso una campagna ancora più grande e partecipata, nata e sviluppata dal basso, assolutamente inclusiva (“dalle parrocchie ai centri sociali”, si disse), condotta nel pressoché totale silenzio dei mass-media e a cui si contrappose una contro-campagna che opportunisticamente e furbescamente – almeno così pensavano i suoi fautori – puntò più sulla distrazione e conseguente astensione che al confronto e al voto consapevole. Sappiamo come andò a finire: grazie anche all’accoppiata con la richiesta dell’abrogazione del ritorno all’energia nucleare, il 12 e 13 giugno 2011, 27 milioni di italiane e italiani spazzarono via opportunismi e giochetti, votando “sì” all’abrogazione delle norme che avrebbero imposto la privatizzazione dell’acqua. Un risultato che non sembra essere mai andato giù a quasi tutte le forze politiche (per la verità anche a qualcuna che aveva fatto campagna per il “sì”) e ad una parte del mondo imprenditoriale, pronto a buttarsi sull’affare del secolo: la privatizzazione di un bene prezioso di cui nessuno può fare a meno. Questo ostracismo verso il pronunciamento popolare è stato evidente in vari tentativi parlamentari tesi ad introdurre forti agevolazioni alla privatizzazione, ma soprattutto nel divieto di affrontare la discussione sulla proposta di legge di iniziativa popolare legittimata dalle firme di 400.000 cittadini. Come peraltro è accaduto alle altre leggi di iniziativa popolare, la proposta del 2007 non fu discussa in Parlamento nella legislatura in cui fu presentata. È stata però riproposta, con qualche adeguamento, sia nella passata legislatura che nell’attuale. Il 23 marzo 2018 è stata infatti presentata la proposta di legge recante “Disposizione in materia di gestione pubblica e partecipata del ciclo integrale delle acque” con primo firmataria l’onorevole Federica Daga del Movimento 5 Stelle (AC n. 52). Successivamente, il 22 giugno 2018, è stata presentata un’altra proposta di legge recante “Principi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque”, primo firmataria l’onorevole Chiara Braga del Partito Democratico (AC n. 773), che però non recepisce i contenuti della legge di iniziativa popolare del 2007. La maggioranza di governo ha deciso di proseguire nell’esame della proposta della pentastellata Federica Daga, senza però trovare un accordo sugli emendamenti da presentare al testo per la discussione. Ciò ha determinato, almeno finora, una situazione di stallo presso la Commissione Ambiente della Camera, visto che le posizioni tra M5S e Lega non coincidono affatto. La Lega, che peraltro, quale componente dell’allora governo di centrodestra, aveva votato la normativa abrogata dal referendum del 2011, sembra avere una posizione sostanzialmente contraria al processo di ripubblicizzazione. Sul testo sono stati presentati circa 240 emendamenti da parte delle opposizioni (Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia), della Lega e persino di alcuni parlamentari dello stesso M5S, tutti tesi a modificare la proposta di legge AC n. 52 che costituisce, non solo l’aggiornamento del testo sottoscritto da 400.000 cittadini, ma anche il recepimento dello spirito del referendum del 2011, rappresentando l’applicazione concreta dei punti qualificanti che hanno caratterizzato tutto il lungo percorso nato nel 2007: •riconoscimento dell’acqua quale bene comune e diritto umano universale e, nello specifico, dell’accesso all’acqua potabile quale diritto inalienabile e inviolabile della persona; •necessità di tutelare l’acqua quale bene finito indispensabile alla vita di tutto l’ecosistema; •necessità di definire un bilancio idrico per ogni territorio su cui strutturare la gestione dell’acqua al fine di garantire il rispetto dei cicli naturali e dei reali fabbisogni; •riconoscimento del servizio idrico integrato quale servizio pubblico privo di rilevanza economica da sottrarre alle leggi di mercato per cui non deve essere consentito a nessuno di fare profitti su un bene che deve essere riconosciuto a tutti; •gestione del servizio idrico integrato esclusivamente attraverso enti di diritto pubblico; •superamento in tempi certi delle gestioni tramite società di diritto privato; •gestione partecipata dell’acqua. La proposta di legge AC n. 52 individua un sistema per la corretta gestione del servizio idrico integrato e dell’intero ciclo dell’acqua: acqua che rappresenta un bene dalla cui disponibilità e qualità dipende la vita, non solo dell’uomo, ma anche di tutti gli habitat e di tutte le specie della Terra. La sua conservazione è quindi ancora più importante oggi che inquinamento e cambiamenti climatici mettono a rischio gran parte dei bacini idrici del Pianeta, compresi quelli del nostro Paese. Contro tali impostazioni si è manifestato un fuoco di sbarramento, emerso anche nelle varie audizioni che si sono succedute in Commissione Ambiente nelle ultime settimane. Obiezioni che però ricordano molto quelle che vennero sollevate dagli stessi soggetti in occasione del confronto referendario del 2011. Obiezioni che, peraltro, sono state confutate da altri interventi a favore, come quello del WWF Italia (leggi qui ) e soprattutto del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua che ha predisposto un articolato dossier al riguardo (leggi qui) con una successiva integrazione (qui il link). Eppure il disegno sotteso al testo in discussione appare corretto: tutelare un bene fondamentale, sottraendolo alle regole del profitto economico e prevedendone una gestione che tenga conto del suo ciclo naturale. Ne consegue che si debbano superare i modelli di gestione attraverso enti di diritto privatistico che sono comunque finalizzati al profitto e che, al contrario, si debbano prevedere come strumento di gestione esclusivamente enti di diritto pubblico quale l’azienda speciale che rappresenta un modello innovativo capace di garantire, da un lato, efficacia ed efficienza, ma dall’altro anche partecipazione e rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Secondo l’art. 114 del Testo unico degli Enti Locali, l’azienda speciale è un “ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale”, diverso quindi dal Comune o dalla Provincia da cui dipende funzionalmente (sostanziale differenza rispetto alle aziende “municipalizzate”) e con il compito di procedere autonomamente al perseguimento dei fini posti dall’ente locale. Come conformato dalla Cassazione nel 1997 (Cass. Sez. un. 15 dicembre 1997, n. 12654), l’azienda speciale fa parte degli enti pubblici economici, cioè di quegli enti di diritto pubblico la cui attività, anche se strumentale rispetto al perseguimento di un pubblico interesse, ha per oggetto l’esercizio di un’impresa e si uniforma alle regole di economicità avendo l’obiettivo del pareggio di bilancio. Indispensabile quindi avviare, con tempi certi, una fase di transizione verso la ripubblicizzazione delle varie gestioni del servizio idrico, stabilendo la decadenza degli affidamenti in essere in concessione a terzi. Del resto, contrariamente a quanto sostenuto dai fautori della privatizzazione, l’approvazione di un tale percorso farebbe rientrare il nostro Paese in un trend ormai comune a molti Paesi. Dopo decenni di privatizzazioni, più o meno selvagge, infatti, negli ultimi anni i casi di ripubblicizzazione hanno riguardato ben 37 Paesi e tante città e comunità, circa 130 solo in Europa, stanno tornando indietro di fronte al fallimento delle gestioni monopolistiche private. Gli esempi vissuti in questi anni hanno dimostrato come la privatizzazione non ha certo comportato il miglioramento dei servizi, né l’abbassamento delle tariffe per il cittadino. Ma la proposta di legge del 2007, di cui quella in discussione costituisce, come si è visto, la continuazione, aveva nell’affermazione concreta di alcuni aspetti di principio un elemento altrettanto innovativo. Porsi l’obiettivo di utilizzare l’acqua avendo ben presente la necessità di conservare e non peggiorare la qualità di questa risorsa indispensabile per la vita delle prossime generazioni esattamente come lo è stata per l’attuale e per quelle che l’hanno preceduta, garantire a chiunque, attraverso la fiscalità generale, 50 litri al giorno per alimentazione e igiene, indipendentemente dalla disponibilità economica del singolo, garantire i processi partecipativi nella gestione di un bene così importante, costituiscono affermazioni di principio che nel testo normativo trovano una giusta esplicitazione attraverso l’intervento su vincoli e durate delle concessioni di prelievo d’acqua per garantirne una migliore tutela, l’attenzione alla ristrutturazione della rete idrica per ridurre le perdite e migliorare la qualità, il favorire il consumo di acqua del rubinetto disincentivando al contempo quello dell’acqua in bottiglia (cosa quanto mai opportuna, visti gli impatti ormai insostenibili del trasporto di merci e della diffusione della plastica), la previsione di strumenti di informazione e consultazione, ma soprattutto di reale partecipazione nelle varie fasi della gestione. Non è semplice prevedere cosa succederà in Parlamento. La situazione bloccata a cui si accennava in apertura non appare facilmente superabile e l’approdo in discussione nell’aula della Camera prevista per il 25 marzo è nuovamente slittato a non si sa quando. Il rischio di accordi al ribasso e poco chiari è altissimo, considerato anche come gli equilibri politici all’interno della maggioranza siano così rapidamente mutati e come le posizioni contrarie ad una gestione dell’acqua comune e partecipata siano presenti sia in parte della maggioranza che nelle varie minoranze parlamentari. In realtà il voto espresso dagli italiani nel giugno del 2011 indicherebbe una direzione chiara, ma sappiamo che in tante altre occasioni la volontà manifestata dai cittadini attraverso lo strumento referendario è stato ignorato, quando non addirittura tradito.