Il presidente dell’INPS Tridico, in occasione della lezione inaugurale del Master in Economia dell’Università “La Sapienza” di Roma ha espresso una critica condivisibile sul rapporto tra orario di lavoro e produzione della ricchezza. La lezione, del resto, era un argomento molto accattivante: “Le diseguaglianze nel capitalismo finanziario”. Un tratto particolarmente esposto degli squilibri del sistema delle merci e del profitto in una fase di riassestamento da crisi economiche che ancora non possono dirsi superate e che, proprio per questo, continuano a riversarsi sui moderni proletari, sulla forza-lavoro e sulla crescente area disoccupazionale che anche nelle stime di un organismo non certo comunista quale il FMI viene vista come una minaccia per la stessa permanenza dell’Italia nella cosiddetta “Euro zona”. Pasquale Tridico ha ricordato che da ben mezzo secolo in Italia non si interviene nel monte ore di lavoro rispetto alla produttività: quando questa aumenta, sostiene l’economista di cultura keynesiana, “occorre redistribuirla o con salario o con un aumento del tempo libero.”. Ne gioverebbe il ciclo economico dell’italica penisola, perché la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario consentirebbe la redistribuzione dell’eccedenza del tempo su altre “unità” lavorative e quindi si potrebbe avere un aumento dell’occupazione. Solo cinque anni fa, dalle colonne de “Il manifesto”, Stefano Perri scriveva: “Se un italiano lavorasse le stesse ore annue di un europeo, l’occupazione dovrebbe crescere del 12,54%. Se lavorasse come un francese avremmo un più 18,34%, come un tedesco il 29,95% in più. Si tratta solo di un esercizio meccanico ma dice che è possibile lavorare meno e lavorare tutti.”. Del resto, la media del monte ore lavorativo era, nel lontano 1997, di 31 ore nei Paesi Bassi mentre nel resto dell’Unione Europea ad oggi rimane la clausola condivisa che il massimo del minimo delle ore settimanali per un lavoratore rimane la famigerata soglia delle 48 ore. Una ricerca più aggiornata (2018) ci dice che in Germania si lavorano mediamente 1.371 a persona, in Francia 1.482, in Spagna 1.691. L’Italia rimane la nazione che registra una diminuzione di ore lavorate ma non per via di una riforma che veda orario di lavoro e salario sullo stesso piano, bensì per la parcellizzazione del lavoro, per l’aumento di contratti interinali e precari, per una disoccupazione che, dato ancora di questi ultimi giorni, cresce soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione: 1.735 risultava, infatti, essere il totale della media delle ore di un lavoratore italiano. E’ ovvio che le dinamiche produttive sono mutate, le cifre non sono più le stesse: mai come nel mercato del lavoro la stabilità di una percentuale è “qual piuma al vento“, eppure il tema della riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario, è sempre bene sottolinearlo…) resta il nodo cruciale per riequilibrare potenziale del potere d’acquisto e aumenti di produttività aziendale. E’ un argomento che come comunisti abbiamo sempre introdotto nei programmi e nelle analisi delle varie fasi di sviluppo (o inviluppo…) del capitalismo moderno, consapevoli che la tendenza del sistema è quella di sfruttare sempre maggior mente i ritmi di produzione senza però aumentare il costo della forza-lavoro e senza diminuire le ore del lavoro stesso. Un cortocircuito che funziona soltanto con lo stravolgimento dei regimi contrattuali portato avanti per decenni da una borghesia imprenditoriale che si è rifiutata di sacrificare parte del profitto provando a rimanere concorrenziale su un mercato globale che, dopo lustri e lustri, oggi la sta schiacciando tra i giganti dell’Asia e la rincorsa americana a primeggiare in quanto ad armamenti e tecnologie. Così, sebbene il mercato europeo sia nel sua complesso il primo al mondo per circolazione di capitali e per produzione di ricchezza, le varie economie nazionali restano in concorrenza reciproca e non esiste un equilibrio che possa farci parlare di “economia europea”, ma semmai di “Europa al traino” di una economia. Attualmente tutti sappiamo che la cosiddetta “locomotiva” del Vecchio Continente è la Germania e che l’asse franco-tedesco sta trovando sempre più punti contatto anche in merito ai diritti dei lavoratori, per arginare proteste continuative come quelle dei “gilet gialli” e per comprimere l’espansione dell’estrema destra che, similmente a quanto avvenne con il movimento völkisch durante la crisi della neonata democrazia repubblicana di Weimar, è sempre pronta a cavalcare i disagi sociali trasformandoli, grazie ad una propaganda intrisa solo di menzogne, in scontri fra etnie e minoranze d’ogni tipo. La riduzione dell’orario di lavoro potrebbe essere non solo una proposta da porre a livello nazionale italiano ma da estendere a tutto il Continente: una bandiera che i comunisti e la Sinistra che si prepara al voto del 26 maggio devono poter strappare ai liberisti mascherati da forze sociali, assise o meno al governo di un Paese, recuperando una connessione non solo emotiva ma soprattutto programmatica, una linea del volto ritrovato di un progressismo che non può essere interpretato dalla pessima imitazione di chi si finge amico dei lavoratori mentre ha alle spalle ancora lo strascico mefitico del Jobs act e della Legge Fornero.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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