Siamo così impegnati a cercare quello che c’è dietro la crisi libica, che non vogliamo vedere quello che sta davanti ai nostri occhi. Sarà pure colpa del perfido Macron che spalleggia il temibile Haftar e di sicuro dei petrodollari dell’Arabia saudita – nostro privilegiato mercato di armi, subito nel conflitto in Yemen – oppure del cosiddetto «defilarsi» degli Stati uniti che in realtà stanno dietro al ruolo saudita, o di Putin che aspetta, come ha fatto per la Siria, che la frittata dell’Occidente si sia bruciata. Tutto congiura a far dimenticare le responsabilità dei nostri governi, di centrodestra e centrosinistra, che in questi 8 anni si sono succeduti alla guida dell’Italia. Azzerando l’altro piccolo particolare: lì, nel marzo-aprile del 2011 si è consumata la più grande sconfitta storica del Belpaese dopo la Seconda guerra mondiale. Lì abbiamo accettato, nonostante i patti sottoscritti con Gheddafi, una guerra devastante della Nato. Fu colpa dell’ambiguo Sarkozy, geloso degli accordi sul petrolio realizzati dall’Italia e anche per oscurare i finanziamenti ricevuti da Tripoli per la sua campagna elettorale. Certo. Ma l’Italia dov’era? Era in prima fila a rincorrere i cacciabombardieri francesi, a offrire basi e intelligence, a partecipare alla guerra, a chiamare con molti giornalisti quella distruzione come una «rivoluzione». Una dimenticanza che soccorre, come ogni negazione della memoria, la gestione di un presente squallido, ambiguo e pressapochista. Parliamo dell’attuale governo Conte. Con Salvini e Moavero più volte corso in Libia a sostenere il fantoccio Serraj, del quale continuiamo a sentire la definizione di «riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Onu»: peccato che non sia riconosciuto dai libici. Giacché, abbattuto il “dittatore” Gheddafi, al posto suo abbiamo cercato il fantoccio di turno, quello più accomodante. Un presidente del Consiglio Conte che, a quanto fa sapere lui stesso, non bastassero le foto che lo ritraggono qui e là con Serraj e Haftar insieme, è in contatto con entrambi e che sente ripetutamente il nemico Haftar. Ma non era Conte che doveva essere, con tanto di affidamento di Trump, la «cabina di regia» della crisi in Libia? Chi c’è dunque dietro? C’è l’Italia e la sua meschinità tradizionale. Con l’aggiunta di una incapacità, lampante in politica interna, che in politica estera diventa un horror «luminoso». Al punto che torna a dividersi il governo sull’ipotesi di un possibile intervento militare. Non bastasse il fatto che abbiamo 400 soldati a Misurata a protezione di un ospedale prezioso, che ora è diventato d’un colpo la retrovia della “nuova” guerra. Nuova è un aggettivo difficile: dalla fine dell’intervento dell’Alleanza atlantica nell’ottobre del 2011, con lo scempio del corpo di Gheddafi raggiunto dalle milizie grazie alle segnalazioni Usa, di tentativi di conflitto armato per cacciare Serraj ce ne sono stati decine. Del resto che potevano fare se non nuove guerre le più di 700 milizie – secondo l’Onu – che tenevano e tengono in mano il Paese che sta dall’altra parte del Mediterraneo, ridotto senza istituzioni politiche rappresentative, in almeno quattro entità separate e conatrapposte, Tripolitania, Cirenaica, Fezzan, più le aree di Sirte, Derna e in fondo al Fezzan infestate dall’Isis e da Al Qaeda? «Se qualcuno gioca alla guerra non staremo a guardare», minaccia il ministro Salvini. Che vuol dire? Vuol dire che il brivido di pensiero di un altro intervento militare italiano sta passando nelle teste dei “nostri” governanti. Senza memoria di quello che abbiamo già provocato. Forse Salvini si fa forte del fatto che quando partì la «Guerra nostra» – così titolò il manifesto il 22 marzo del 2011, e il titolo lo facemmo con Valentino Parlato – la Lega si dichiarò contraria. Ma solo un mese dopo trovò, con Bossi, la quadra per mettersi d’accordo con il presidente Berlusconi per una mozione unitaria che appoggiava la guerra bipartisan: l’opposizione del Pd applaudì. Quattro anni fa l’«innocente»Salvini intervistato da Skytg24 dichiarò: «Chi è quel cretino che ha portato la guerra in Libia?». Possiamo rispondergli: vieni avanti cretino. Certo, se il vento bellicoso torna a spirare è perché in Libia ci sono gli interessi petroliferi italiani e ormai, soprattutto, l’affare criminale, quello della necessità di fermare la fuga dei migranti. Giacché siamo stati interessati alla Libia non perché dovesse essere indipendente, unitaria, democratica e pacificata. L’importante per noi è che resti il cane da guarda costiera dei barconi di esseri umani in fuga da guerre e miserie africane e dall’inferno dei campi di concentramento, prigioni e torture gestite dalle milizie libiche. Ora c’è chi, come il rappresentante più sovranista che c’è della Lega, l’europarlamentare Marco Zanni, grida al «complotto» per destabilizzare la grande conquista del governo italiano: i porti chiusi. Perché è evidente a tutti che di fronte alla crisi umanitaria in corso, che fa fuggire gli stessi libici e figurarsi quelli che in fuga c’erano anche prima, non possiamo chiudere le nostre sponde all’accoglienza. Niente paura, i porti rimarranno chiusi lo stesso, «menomale» che c’è la strategia di Salvini, fa sapere il governo per bocca del sottosegretario Garavaglia. Mentre l’esecutivo si divide, con la ministra della difesa, la pentasellata Trenta – che non ferma il mercato di bombe per lo Yemen, né l’acquisto egli F35 – che fa sapere che non ci sarà nessun intervento militare. Dimenticando anche lei che i soldati italiani, e in pericolo, in Libia già ci stanno.