Non erano in molti a credere che la discussa riforma del Copyright — approvata dal Parlamento Europeo negli scorsi giorni con grande clamore — sarebbe stata poi bloccata dal Consiglio UE nell’ultimo passaggio utile per rivederla. Così infatti non è stato: la normativa ha ricevuto in questi minuti il suo via libera definitivo grazie al voto della maggioranza dei Paesi membri, ai quali si è opposta l’Italia con cinque altre eccezioni. Da noi del resto i due partiti di governo votarono contro l’approvazione già durante la discussa votazione nel Parlamento Europeo, ma insieme al nostro Paese si sono schierate la Svezia, la Finlandia, la Polonia, l’Olanda e il Lussemburgo.

Cosa succede ora
Il testo della direttiva finirà ora pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea; a partire dalla data di pubblicazione, gli Stati membri avranno poi due anni di tempo per tramutare i principi contenuti nella normativa in leggi applicabili sul proprio territorio nazionale. Si tratta di un processo di non facile attuazione che, visti gli spazi di manovra lasciati dal testo, secondo diversi esperti potrebbe risultare in leggi anche molto diverse tra loro all’interno dei vari Paesi, che anziché semplificare il panorama legislativo all’interno dell’Unione potrebbero complicarlo.

Cosa cambia
Dei principi più complessi da tradurre in legge fanno parte anche i discussi articoli 11 e 13 (che dopo l’ultima revisione del testo sono diventati il 15 e il 17), dei quali abbiamo parlato a lungo perché potenzialmente in grado di minare la libertà di circolazione dei contenuti e delle idee online. Il primo — conosciuto con il nome di link tax — prevede che qualunque piattaforma utilizzi estratti provenienti da notizie pubblicate da siti altrui lo faccia dietro un accordo economico con gli editori, con il rischio però che le realtà coinvolte dalla riforma come Google News e Facebook si rifiutino di aderire a un modello del genere e abbandonino le prorpie attività connesse al settore in tutto il territorio europeo.

Il secondo articolo — conosciuto come upload filter — dà alle piattaforme di condivisione online la responsabilità di rimediare alle violazioni di copyright nelle quali incorrono gli eventuali contenuti caricati sui loro server dagli utenti, costringendole però a mettere in pratica misure di controllo potenzialmente restrittive su questi ultimi. Una soluzione molto costosa, che l’articolo 17 evita di imporre solo a una ristretta cerchia di tipologie di contenuti (come gif e meme) e di realtà online, ovvero enciclopedie senza scopo di lucro, piattaforme software open source e startup con meno di tre anni di vita, cinque milioni di accessi unici al mese e 10 milioni di euro di fatturato annuo; tutte le aziende che non rispondono a questi criteri dovranno però implementarla a proprie spese.

Il monito della Germania
Proprio a questo proposito perfino la Germania — tra gli sponsor più convinti della direttiva — ha invitato la Commissione ad evitare che il processo di traduzione in legge della normativa costringa i proprietari delle piattaforme coinvolte a implementare filtri all’upload e intraprendere atti di censura. Potrebbe essere difficile però seguire la raccomandazione senza snaturare il senso degli articoli 15 e 17: come denunciano da tempo Google e le altre piattaforme toccate dalla normativa, l’unico modo per rispettare il volere dell’Unione così come espresso nella riforma (ovvero impedire violazioni di copyright su migliaia di contenuti caricati ogni giorni dagli utenti) è proprio quello di controllare il materiale in modo automatico

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Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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