Come una rondine non fa primavera, una dichiarazione del governo sull’”anno bellissimo” non fa l’età dell’oro della politica italiana. Le contraddizioni, del resto, che l’esecutivo affronta ogni giorno sono tali e tante che a ragion veduta è più che corretto affermare che è tenuto assieme da un collante rappresentato dal timore per le elezioni europee al momento. In seguito, si vedrà. Eppure, nonostante gli sforzi di Salvini di catalizzare l’attenzione degli italiani sui rom e sui campi, a tenere banco in questi giorni è stato il ministro Tria o, sarebbe meglio dire, il complesso insieme delle vicissitudini economiche che l’Italia rischia di dover affrontare nel mezzo di una campagna elettorale che vede il dualismo con l’Europa al centro dei programmi di tutte le forze politiche che saranno presenti sulla scheda per il voto. Non è tanto tempo di nuove scritte “NO EURO” sui simboli, a caratteri cubitali, per segnalare che il voto messo lì è un voto per tornare alla Lira e per riprendersi la “sovranità monetaria”. Non è questo il tempo per discussioni tra chi è contrario e chi è favorevole alla moneta unica e chi la guarda con sacrosanta criticità. E’ semmai il tempo per definire che tipo di tracciato economico il governo intende costruire in Italia e quali riflessi avrà in campo continentale: l’ascesa della percentuale dell’IVA al 25,5% fissata per il 2020 (un aumento legato alle cosiddette “clausole di salvaguardia” per un ammontare di circa 23 miliardi di euro) è un comprensibile motivo di allarme generale poiché si tratta di una tassazione indiretta e che colpisce tutti indiscriminatamente e, per questo, peserà sempre più sulle tasche di vaste fasce della popolazione, quella più indigente e più esposta alle fluttuazioni di una crisi economica mai veramente superata. Un macigno per un governo che si picca d’essere “del popolo” e che vuole rappresentarsi come quello che, nella storia repubblicana d’Italia, è senz’altro il più vicino alle esigenze dei più deboli. Tutto il contrario invece: è il governo più a destra che mai vi sia stato, almeno geopoliticamente parlando, dal 1948 ad oggi ed è il governo che sta facendo maturare una posizione economica del Paese nel contesto internazionale che vorrebbe guardare, sul piano ad esempio del cosiddetto “import-export” al continente asiatico piuttosto che a quello più consono all’imperialismo europeo: gli Stati Uniti d’America. I due alleati si danno battaglia su vecchie pantomime leghiste sui dazi e una sorta di autarchia rinnovata, magari un po’ mutuata dal ventennio fascista, per promuovere il “Made in Italy” e farlo verso mercati ancora poco sperimentati, come quello cinese. Ma in patria rimangono insolute grandi questioni: la flat tax, l’aumento dell’Iva paventato da Tria sempre con maggiore vigore (più che paventato sarebbe meglio dire: richiesto a gran voce) e tutta una serie di problematiche legate al lavoro che il governo non affronta direttamente ma che elude provando a fare politiche di assistenza che non risolvono il dramma della precarietà, della disoccupazione che torna a crescere (soprattutto tra i giovani venti-trentenni) con squilibri enormi tra Mezzogiorno e nord del Paese. La politica economica e del lavoro di questo esecutivo è, pertanto, un problema che va ben oltre i dilemmi quasi ideologici (e sarebbe bene che ogni tanto le ideologie tornassero a fare salutarmente capolino nell’agorà italiana di una politica bislacchissima) che si innestano sulla “tassa piatta” o sul “reddito di cittadinanza”. Il punto dirimente è che della progressività fiscale all’esecutivo guidato dal professor Conte (e governato da Di Maio e Salvini) non importa niente a nessuna delle due forze che hanno stipulato il “Contratto di governo”. Quella terribile misura bolscevica della progressività fiscale, contenuta nella Costituzione repubblicana, è fumo negli occhi perché se veramente applicata porterebbe alla più naturale e saggia delle conclusioni: l’introduzione di una tassa patrimoniale in Italia che i sindacati come la CGIL chiedono da almeno due lustri e che Maurizio Landini è tornato a riproporre proprio nelle settimane scorse. Qui la chiusura netta non è soltanto da parte governativa ma anche da parte del PD e di Forza Italia, quindi delle opposizioni nemiche e amiche che in tema di protezione del liberismo e del profitto vanno d’amore e d’accordo. La novità non c’è, dunque nessuna sorpresa in merito. Tenendo debitamente conto che il 50% della ricchezza del Paese è racchiuso nel 10% più ricco della popolazione, ne consegue che la patrimoniale intanto sarebbe una tassa che colpirebbe i grandi ricchi, non certo chi possiede qualche casa, magari frutto del sudore di risparmi di una vita, oppure due terreni dove si coltivano biologicamente prodotti a chilometro zero. Si tratterebbe di una redistribuzione dei margini di imposizione fiscale che vedrebbe esclusi i più spaventati da ciò: i borghesucci del “ceto medio”, i piccoli imprenditori con aziende a conduzione familiare ad esempio e che vedrebbe invece coinvolti i grandi marchi, le grandi industrie che esportano in tutto il mondo, i finanzieri che accumulano profitti enormi e li scudano poi per farli rientrare in Italia dopo aver evaso abbondantemente il fisco per una vita. Dalla patrimoniale lo Stato ha solo che da guadagnare in termini di acquisizione di un gettito da redistribuire veramente sul piano di una riforma sociale che contempli investimenti su settori oggi completamente allo sbando: lavoro e sicurezza sul lavoro, sanità, scuola, edilizia pubblica, infrastrutture, patrimonio artistico, ambiente, eccetera… Ma il dibattito, invece, rimane alla soglia del 25% dell’IVA: elettoralmente si giocano il posto di amici delle imprese e dei consumatori i due alleati di governo mentre il Paese rimane schiacciato dall’asse franco-tedesco, mentre la paura e l’ansia generale di un popolo privo di strumenti critici per schermare le fobie indotte dagli urlatori nelle piazze, dai tribuni di una plebe che vuole rimanere tale e che non ha difesa immunitaria sociale per sbugiardare chi fa discorsi legati soltanto a slogan e privi di ogni attinenza con la cruda realtà dei dati di una Italia sempre più povera ma senza fiscalità progressiva e patrimoniale

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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