Carlo Gubitosa

Il mondo della politica piange la scomparsa di Massimo Bordin, ma intanto decreta la morte del pluralismo e della libertà d’informazione a vantaggio di un oligopolio. Proprio il caso Radio Radicale dimostra che la sfera culturale va sottratta al mercato.

Appoggereste un movimento che vuole privatizzare i beni comuni? No, vero? Abbiamo lottato strenuamente a colpi di referendum e campagne di sensibilizzazione per difendere dalle privatizzazioni e dalle speculazioni l’acqua pubblica, la scuola pubblica, la sanità pubblica e alcune reti di trasporto pubblico.

Ma c’è un bene comune che solo in pochi si ostinano a difendere: l’editoria, che qualcuno vorrebbe abbandonare alle spietate leggi di mercato. E quando si dice “editoria” si parla di un contenitore che racchiude tantissimi altri beni comuni: la cultura, il pluralismo, la difesa delle minoranze, l’esercizio della libera espressione, la difesa delle voci più deboli, l’autodifesa dei cittadini dalle manipolazioni dei grandi gruppi economici e industriali che condizionano la vita, l’economia e la politica del paese.

Quello dell’editoria è un settore molto delicato, che è attività d’impresa e servizio pubblico al tempo stesso, luogo di profitto aziendale e luogo di nutrimento dell’anima, sfera pubblica e proprietà privata. Per capire cosa succede abbandonando l’editoria al “libero mercato” possiamo partire dai dati statunitensi: secondo l’agenzia statistica federale degli Stati Uniti, negli USA ci sono 39,7 milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà, con un tasso ufficiale di povertà del 12.3%, con buona pace di chi pensa che il mercato si regoli da solo portando benessere per tutti.

La favola della “mano invisibile del mercato” che autoregola l’economia offrendo a tutti le stesse opportunità e generando benessere diffuso si è rivelata in molte occasioni per quello che è: un imbroglio bello e buono, ed è per questo che nei paesi con una forte cultura del “bene comune” vengono i brividi a immaginare una società dove non ci sono servizi pubblici di pronto soccorso e la salute è completamente in mano alle leggi della domanda e dell’offerta.

Ma c’è qualcuno che ancora si ostina a credere alla stessa teoria, riproposta in modo diverso nel settore dell’informazione: “lasciate i giornali sul mercato senza che lo stato ci metta un centesimo, che vinca il migliore e alla fine prevarranno i giornali più onesti, trasparenti e coraggiosi”. Davvero?

Per capire se il “mercato libero” e senza intervento statale può essere il contesto migliore per favorire il pluralismo non c’è bisogno della sfera di cristallo con cui guardare il futuro, bastano un po’ di informazioni e un po’ di memoria per leggere il passato.

Fonte: https://bit.ly/2XgtED9

Questi grafici spiegano quello che è accaduto negli ultimi anni nella “land of the free”, la terra a stelle e strisce degli uomini liberi, dove i grandi colossi mediatici hanno vissuto un inarrestabile processo di concentrazione, che nel giro di pochi anni ha ridotto ad un ristretto oligopolio le aziende che controllano la gran parte del mercato dell’informazione, con sei grandi imprese che controllano il 90% dei contenuti, mentre il “libero mercato” lascia alla libera informazione solo il 10% delle risorse.

Fonte: https://bit.ly/2XgtED9

Altro che vittoria meritocratica della libera stampa: l’informazione mutilata del sostegno pubblico e appiattita sulla sfera commerciale è in strutturale conflitto di interessi, visto che quei sei grandi gruppi mediatici fanno parte di altrettanti potentati economici, che seguono i loro interessi anche quando vanno contro gli interessi del pubblico e il diritto alla conoscenza.

La cultura e l’informazione non possono essere totalmente abbandonate alla sfera del mercato, perché dove questo è avvenuto il risultato non è stato il moltiplicarsi delle voci e il fiorire dell’editoria libera, ma la concentrazione editoriale e la formazione di oligopoli e monopoli di fatto, che creano fortissime barriere all’entrata per i soggetti nuovi che hanno qualcosa di diverso da dire.

Nel 1983, 50 grandi “corporation” controllavano la grande maggioranza di tutti i mass media negli Stati Uniti. In quell’anno, il saggista Ben Bagdikian fu bollato come “allarmista” per aver descritto questo fenomeno nel suo libro “The Media Monopoly”. 

Nella quarta edizione del libro, pubblicata nel 1992, Bagdikian ha previsto che questo numero sarebbe sceso fino a una mezza dozzina di compagnie, e anche questa previsione fu accolta con scetticismo. Nel 2000, quando è stata pubblicata la sesta edizione del libro, il numero dei “grandi attori mediatici” negli USA era sceso effettivamente a sei, e da allora non si intravedono nuove finestre di pluralismo, nuove possibilità per l’ingresso di nuovi soggetti nel mercato dell’informazione, nuove iniziative per favorire la biodiversità culturale: soltanto rendite di posizione che si spartiscono il 90% dell’audience. 

Il settore di cui parliamo è un enorme mercato che comprende quotidiani, riviste, stazioni radiofoniche e televisive, musica, film, video, servizi televisivi via cavo, agenzie fotografiche, e oggi anche l’intrattenimento via internet. Un enorme “moloch” che il libero mercato statunitense ha affidato alle decisioni di sei consigli di amministrazione, che rispondono solo ai loro azionisti e non ai cittadini del “mondo libero”.

Nonostante questi chiari segnali che ci arrivano dalla storia economica e mediatica di chi ha costruito oligopoli e povertà sui falsi idoli del “libero mercato”, c’è ancora chi si accanisce nell’invocare questa finta libertà come soluzione di tutti i mali, ignorando che è la causa di mali ben più gravi, e quando si tratta di togliere soldi a un giornale, una radio o un festival culturale spunta sempre una nutrita tifoseria che applaude al grido di “basta soldi all’editoria, vogliamo la stessa stampa libera che c’è negli Stati Uniti, dove grazie al libero mercato chiunque può costruire un impero culturale se fa buona informazione”.

Ma i fallimenti tangibili e documentati del “libero mercato” nel garantire il pluralismo dell’informazione e la biodiversità culturale sono confermati anche dalla teoria economica, secondo la quale alcuni settori della cultura, se privati di un intervento pubblico, non sono strutturalmente in grado di garantire sostenibilità economica anche se producono i contenuti più validi del mondo. In altre parole, in alcuni settori chiedere a un’impresa culturale di andare sul libero mercato è come chiedere a una gallina di andare in un pollaio dove sono liberi tutti, anche le volpi che fanno i loro comodi.

La cosiddetta “legge di Baumol” (o “legge della crescita sbilanciata”) indica un’analisi dell’economia della cultura formulata nel 1966 da William Baumol, che ha fatto una distinzione tra settori “produttivi” e “stagnanti” dell’economia in funzione della capacità di assorbire e incorporare le tecnologie nel processo produttivo.

In questa prospettiva le imprese artistiche e culturali che realizzano spettacoli “dal vivo” sarebbero strutturalmente incapaci di competere nel mercato dei prodotti di intrattenimento a causa della loro impossibilità di introdurre i vantaggi competitivi delle tecnologie nel processo produttivo. Detto altrimenti: se getti il teatro sul libero mercato, non vince il teatro migliore, ma muore il teatro come settore culturale, perché il teatro è penalizzato rispetto ad altri settori con un maggiore contenuto tecnologico.

Il limite intrinseco, per questo tipo di imprese culturali, è legato ad un processo di produzione basato principalmente sul lavoro umano e artistico, dove è impossibile sfruttare i vantaggi tecnologici della riproduzione meccanizzata o digitale come avviene per altri settori. Una compagnia teatrale, infatti, soffre dell’impossibilità di riprodurre in infiniti esemplari una sola rappresentazione, come avviene con altri tipi di produzioni culturali. Da qui il conseguente obbligo di organizzare costose tourneè trasportando persone e attrezzature. 

Se il cinema fornisce un’alternativa al teatro dove i produttori di film sono avvantaggiati sui produttori di spettacoli teatrali che non possono utilizzare le stesse tecnologie del cinema, il teatro può esistere solo se la collettività decide di sostenerlo. In maniera analoga a quanto descritto da Baumol negli anni ’60 per le imprese culturali e artistiche, oggi il peso delle tecnologie “non assimilabili” grava sul settore dell’informazione, che soffre la pressione delle nuove tecnologie e dell’offerta alternativa di contenuti in rete. 

Se internet fornisce un’alternativa ai giornali e alle radio, dove si arricchisce chi vende spazi di visibilità per annunci pubblicitari online, dati personali di grandi masse di utenti e l’attenzione di un pubblico imprigionato su piattaforme commerciali di social networking, i giornali e le radio gettati sul “libero mercato” rischiano di essere schiacciati dalla concentrazione mediatica che penalizza le voci libere.

In questo contesto, “stare sul mercato” senza intervento pubblico significa zittire le voci delle minoranze per rivolgersi al grande pubblico con contenuti omologati, rinunciare alla propria funzione sociale per essere sopraffatti dalla logica del profitto, dismettere ogni velleità di documentazione per concentrarsi sul puro intrattenimento.

In poche parole, l’esperienza del passato e l’analisi economica ci insegnano che ogni mercato editoriale e culturale dove viene demonizzato qualunque intervento pubblico di sostegno si trasforma in un oligopolio impermeabile all’ingresso di nuovi soggetti, dove si uccide il pluralismo e si produce una “cultura di plastica” che dà spazio solo alle voci più forti, affermando uno scenario dove anche i consumi “alternativi” di cultura sono comunque ristretti in un ventaglio di opzioni ben determinato.

Questo è quello che accade in un mercato come quello statunitense, dove si producono libri per centinaia di milioni di potenziali lettori, nella lingua che è la prima al mondo per diffusione e la terza per numero di madrelingua dopo il cinese e lo spagnolo. Facendo le debite proporzioni con il mercato anglofono possiamo immaginare gli spazi a disposizione per “stare sul mercato” nel nostro piccolo paese di sessanta milioni di abitanti, con pochi lettori abituali e una media di lettura tra le più basse in Europa (il 59% degli italiani con più di 6 anni non legge libri).

Visti i numeri in gioco, l’abbandono di un settore relativamente piccolo e assolutamente debole come quello della cultura e dell’informazione alle regole di un mercato predatorio rischia di creare in Italia delle forme di concentrazione ancora più odiose e soffocanti di quelle che si sono sviluppate negli USA, con tutto il conflitto di interessi che ne consegue.

Se leggendo tutto questo è più chiaro che l’editoria è un bene comune da difendere contro gli accaparramenti e le concentrazioni mediatiche così come abbiamo difeso l’acqua pubblica dagli accaparramenti delle multinazionali dell’acqua, sarà chiaro come mai ci sono tante persone inquiete per la morte annunciata di Radio Radicale.

Da questa ostinazione nei falsi miti del “libero mercato” e del “sogno americano” nasce l’accanimento a cui assistiamo in queste ore nei confronti di questa radio, un servizio pubblico, un archivio di stato, una parte di memoria storica, politica e culturale del paese che molti etichettano come una radio di partito o un’azienda privata, ignorando che l’azienda mette i suoi prodotti a disposizione gratuita di tutti, che il partito ha storicamente dato voce a tutti, a partire dalle minoranze, e che questa storia di informazione democratica è un bene comune liberamente accessibile e patrimonio di tutti.

I dati sono questi: per un costo annuo che si aggira attorno ai dieci milioni di euro, meno di venti centesimi a testa all’anno per ciascun cittadino, Radio Radicale gestisce 24 ore di programmazione radiofonica giornaliera e fornisce risorse informatiche per consultare un archivio di 540.000 registrazioni, 224.000 oratori, 102.000 interviste, 23.500 udienze dei più importanti processi degli ultimi due decenni, 3.300 giornate di congressi di partiti, associazioni o sindacati, più di 32.000 tra dibattiti e presentazioni di libri, oltre 6.900 tra comizi e manifestazioni, 22.600 conferenze stampa e più di 16.100 convegni.

Questa radio (che personalmente considero l’unico servizio pubblico di informazione realizzato in Italia) non è l’unica a dipendere dal sostegno pubblico a nome di tutti per la propria esistenza: se oggi vengono per chiedere la testa di Radio Radicale, poi toccherà a teatri, biblioteche, conservatori, accademie di Belle Arti, attività che non hanno “mercato” e a cui serve lo Stato, cioè noi tutti, per generare cultura, arte, memoria e conoscenza, considerati inutili e dannosi solo dai fascisti.

Il rischio di estinzione di questo servizio pubblico può essere scongiurato soltanto se sapremo fare un salto di qualità sulla nostra comprensione del finanziamento pubblico all’editoria e del suo ruolo di tutela sociale, per decidere di sostenere collettivamente attività di informazione e documentazione libere dalla pubblicità, messe intenzionalmente al servizio delle voci più deboli e decise a coprire tematiche scomode e difficili da digerire per il pubblico di massa, come le condizioni di vita in carcere, l’antiproibizionismo, la sessualità dei disabili, la libertà di ricerca scientifica, e tutti gli altri temi su cui Radio Radicale da anni concede spazio, voce e dignità alla società civile.

Dietro i pretesti del libero mercato e delle gare pubbliche, si nasconde la becera propaganda populista di chi spaccia come “risparmio” una mutilazione culturale che in un bilancio dello stato vale spiccioli recuperabili in mille modi, e lo fa solo per incassare in campagna elettorale gli applausi della parte più miope, livorosa e retrograda della società, mentre lontano dai riflettori si conferma lo spreco di dieci miliardi per inutili cacciabombardieri e uno shopping da centinaia di milioni per aggiungere più di 8.000 auto blu al parco macchine delle istituzioni. Bastava comprarne 500 in meno per salvare Radio Radicale.

Sotto le nobili vesti della sobrietà, del libero mercato e del risparmio c’è la soppressione deliberata, arrogante e autoritaria di un servizio pubblico che era al tempo stesso un archivio di stato, una struttura a disposizione di chiunque organizzi un convegno e vuole lasciarne traccia chiamando una radio a registrare e diffondere l’incontro, una parte della cultura e della storia dell’Italia, e della storia personale e culturale di tanti, la memoria del dibattito parlamentare e sociale nel nostro Paese, uno strumento fondamentale per capire la realtà, conoscere la storia, esercitare il diritto di informarsi e quello di informare.

Se il sottosegretario all’editoria decreta che “esiste Rai Parlamento, un servizio pubblico, un canale istituzionale che trasmette le sedute parlamentari e delle commissioni”, la scelta di campo di questo governo è chiara: per loro esiste e merita visibilità con risorse pubbliche soltanto quello che avviene nel palazzo, e per il resto non hanno problemi a oscurare quella parte di società che non è rappresentata in Parlamento, quella a cui dava voce Radio Radicale, con un archivio inestimabile (dove sono presenti anche decine di ore di dibattiti, incontri, conferenze e iniziative organizzati da Sbilanciamoci!).

Di fronte a quella che si configura a tutti gli effetti come una interruzione di pubblico servizio, va ribadito che la sfera culturale va sottratta alle leggi di mercato, altrimenti se la comprano i più ricchi e diventa strumento dei potenti e non servizio per tutti. Radio Radicale è cosa pubblica, finanziata dal pubblico, libera da pubblicità ed esigenze di profitto delle radio commerciali, e può permettersi di trasmettere cose che attirano poca audience ma costruiscono un grande valore storico, culturale e politico. 

La radio di Pannella dava voce a tutti, a cominciare dai più deboli: se vince il mercato parleranno solo i padroni. E se dovesse essere oscurata sentiremo la nostalgia di chi apriva i microfoni a chiunque.

Bibliografia e siti di riferimento

  1. https://www.census.gov/library/publications/2018/demo/p60-263.html
  2. https://medium.com/newsvoice/breaking-the-unholy-alliance-between-money-and-mainstream-media-3c7898991c27
  3. https://books.google.be/books?id=5UcXxUCcEp4C&lpg=PA170&ots=NO9j0JO4sy&dq=%22law%20of%20unbalanced%20growth%22&hl=it&pg=PA170#v=onepage&q=%22law%20of%20unbalanced%20growth%22&f=false
  4. https://www.istat.it/it/files//2018/12/Report-Editoria-Lettura.pdf
  5. http://www.ilcambiamento.it/articoli/rete-disarmo-no-f-35-governo-e-parlamento-non-spendano-10-miliardi-per-nuovi-caccia-da-guerra
  6. https://www.radioradicale.it/organizzatore/716/sbilanciamoci- 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Un pensiero su “Radio Radicale e il “libero mercato” della cultura”
  1. Analisi condivisibilissima. Però fa strano che i radicali, i più ultraliberisti che ci siano invochino l’intervento statale ma solo per loro. Qualche contraddizione? Comunque è vero che l’informazione non è una merce.

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