Se gli animalisti vogliono liberare la natura dal barbaro sfruttamento cui è sottoposta devono prima liberare i lavoratori.

di Alessandro Bartoloni

Un articolo apparso sul blog “irragionevole” e intitolato: “Ecologia e critica sociale: quel che il marxismo ortodosso non vuole vedere” mi è stato segnalato quale risposta al mio pezzo sulle confusioni degli animalisti, a sua volta ispirato all’articolo di Danilo Gatto “La sinistra e la questione animale” apparso su questa testata un mese orsono.

Ringraziando per la segnalazione, colgo l’occasione per ribadire e provare a spiegare meglio alcuni concetti che, evidentemente, non sono sufficientemente chiari visto che l’Irragionevole si limita a riproporre alcuni degli argomenti proposti già nell’articolo di Gatto, senza aggiungere nulla di particolarmente interessante né entrare nel merito delle argomentazioni da me utilizzate. Una risposta, tuttavia, è dovuta in quanto gli autori del pezzo in questione ritengono che “occorra ripensare non solo il nostro approccio all’ecosistema, ma anche alla stessa idea di progresso”. Un auspicio che nella sua genericità non può che essere condiviso. Il problema, però, è capire se con gli animalisti di sinistra è possibile trovare un’unità di analisi oppure siamo inevitabilmente di fronte a concezioni utopistiche abbondantemente fuori tempo massimo.

L’Irragionevole mi accusa di non citare alcuna fonte a supporto della tesi secondo la quale tutto il cibo prodotto sul pianeta non è sufficiente per soddisfare le esigenze alimentari di tutti gli esseri umani. Ammetto di non conoscere abbastanza il vasto mondo della letteratura accademica ma la questione appare immediatamente secondaria una volta capito che le statistiche sono il risultato di un processo di elaborazione che si basa su una teoria sociale ed economica. I fondamenti teorici, dunque, condizionano il tipo di elaborazione ed i suoi risultati.

Si prenda, ad esempio, il tasso di disoccupazione. In italia attualmente viene calcolato come rapporto tra il numero di persone che cercano lavoro ed il numero di persone che costituiscono la forza-lavoro. Per l’Istat, i primi sono tutti coloro che “hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive; oppure, inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla settimana di riferimento e sarebbero disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro”. Se non hai fatto almeno una di queste cose sei considerato “inattivo”. Dunque, in qualche modo, mantenuto.

La forza-lavoro, invece, è definita come somma degli occupati e di chi cerca lavoro di età compresa tra i 15 e i 74 anni. Una fascia coerente col grado di sviluppo del nostro paese e che difficilmente sarebbe applicabile a paesi dove si inizia a lavorare a 10 anni e dove la speranza di vita non supera i 60. Ma a ben vedere, anche da noi, sebbene la piaga del lavoro minorile non sia ancora tornata ne sta tornando l’altra, quella del lavoro nella terza età sebbene al momento l’età per ottenere la pensione di vecchiaia è ancora sotto i settant’anni.

Inoltre, non tutti gli individui appartenenti a questa fascia di età sono costretti a lavorare. Alcuni, infatti, per il patrimonio personale o familiare a disposizione o per altre circostanze possono permettersi di non lavorare, ma solo se non lo fanno vengono materialmente esclusi dalle statistiche in quanto inattivi. Inoltre non tutti lavorano sotto padrone e alcuni, pur lavorando, fanno lavorare per sé altre persone. La teoria economica che sta dietro la definizione di forza-lavoro usata dall’Istat, però, non tiene conto di queste fondamentali differenze e presuppone che tutti i lavoratori abbiano la possibilità di mantenersi senza lavorare. Ma se la mancanza di lavoro, per qualcuno (la maggior parte degli esseri umani) rappresenta una condanna a morte, le condizioni di lavoro ed il salario diventano negoziabili solo in minima parte essendo determinati da leggi di funzionamento che trascendono la volontà dei singoli e si basano sul fatto che qualcuno è proprietario dei mezzi di lavoro e qualcuno è costretto a vendere la propria forza-lavoro. Quindi se aritmeticamente è lecito sommare chi è obbligato a lavorare sotto padrone con chi lavora senza esserlo e con chi lavora in proprio o addirittura sorveglia e dirige lo sfruttamento altrui, logicamente questi tipi di occupazione sono del tutto diversi.

Per l’Istat, invece, per essere considerato occupato devi aver semplicemente “svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura” oppure aver “svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale si collabora abitualmente” o ancora essere assente dal lavoro per ferie o malattia. Una definizione coerente con la teoria economica dominante e l’evoluzione del mercato del lavoro. Tant’è che fino alla fine degli anni novanta chi si dichiarava non occupato e rispondeva di avere effettuato una o più ore di lavoro, poteva trovarsi classificato come disoccupato alla ricerca di nuova occupazione, in cerca di prima occupazione, con un lavoro che inizierà in futuro, casalingo, studente, ritirato dal lavoro o altro. Una classificazione decisamente più realistica anche dal punto di vista oggettivo.

Lavorando una o poche ore alla settimana, infatti, difficilmente si è in grado di vedere assicurata la propria sussistenza. Ma la società deve occultare questa crescente e tragica realtà trasformando surrettiziamente il salario quale pagamento per la riproduzione della forza-lavoro in pagamento per un fattore produttivo che apporta valore aggiunto al pari delle macchine e della terra. È su questa base irreale ed irrealistica, dunque, che la rilevazione dell’Istat risulta pienamente “oggettiva” e “scientifica”. Tutto ciò senza considerare il modo in cui è costruito il campione e il modo in cui è condotta la rilevazione.

Se dunque cambiamo i presupposti, cambia il risultato, come hanno dimostrato diverse ricerche in materia. Lo stesso, mutatis mutandis, per quanto riguarda il livello di sussistenza. Per capirlo all’Irragionevole sarebbe bastato leggere la frase che segue quella oggetto di critica e che riassume i presupposti che rendono gli alimenti annualmente prodotti effettivamente sufficienti: (i) considerare umani il consumo alimentare e le condizioni lavorative dei poveri cristi costretti a nutrirsi come possono e ad ammazzarsi di lavoro, di un lavoro che dà la possibilità di vivere come bestie, (ii) aggettivare come commestibile il cibo avariato e avanzato (per non parlare di quello adulterato e il cibo spazzatura) che inevitabilmente si produce.

Se si accettano questi presupposti, quindi, si accetta che il cibo è sufficiente perché ci si limita ad accettare un livello di sussistenza determinato dall’attuale società a-sociale, che abbisogna di veri e propri sacrifici umani (i c.d. morti sul lavoro) per garantire gli attuali livelli di produzione alimentare. Ufficialmente, infatti, il livello minimo di fabbisogno energetico usato è quello calcolato dalla Consultazione di esperti FAO/OMS/ONU del 2001. Questo gruppo, tre anni dopo, ha pubblicato gli standard energetici per gruppi, suddivisi per sesso ed età, che svolgono un’attività fisica sedentaria e con un peso corporeo minimo accettabile per il raggiungimento dell’altezza media. Per i nostri esperti, dunque, il fabbisogno energetico medio è la quantità di energia necessaria per equilibrare il dispendio energetico al fine di mantenere il peso corporeo, la composizione corporea e un livello di attività fisica necessaria e desiderabile coerente con una buona salute a lungo termine. Ciò include l’energia necessaria per la crescita e lo sviluppo dei bambini, per la deposizione di tessuti durante la gravidanza e per la secrezione di latte durante l’allattamento, in linea con la buona salute di madre e bambino.

In questo approccio, dunque, il cibo è visto soltanto nella sua dimensione quantitativa (come energia) e non anche qualitativa (tipi di nutrienti). E come i vegetariani possono giustamente riferirsi alla “gotta” quale storico problema di salute derivante dall’eccessivo consumo di carne (oppure, oggi, ai problemi ormonali, visto che gli animali cresciuti negli allevamenti intensivi sono pesantemente trattati con prodotti farmaceutici aventi conseguenze molto serie per la salute umana), così possiamo riferirci a tutti i problemi, dalla cecità alle malformazioni, derivanti da una dieta squilibrata. Un problema che la letteratura dominante chiama, eufemisticamente, “fame nascosta”.

Ma anche volendo prescindere dal fatto che la salute psico-fisica è determinata non solo dall’alimentazione ma anche dalla salubrità dell’ambiente e altri fattori, la cosa più importante è che l’attività fisica considerata è di tipo sedentario. Un assunto assolutamente in linea con gli standard di vita della borghesia e dei ceti medio-alti occidentali ma altrettanto assolutamente incompatibile con l’esistenza di miliardi di persone obbligate ad ammazzarsi letteralmente di lavoro per poter sopravvivere. La concezione di essere umano che sta dietro la definizione dominante di sussistenza, dunque, è degradante in quanto veniamo visti unicamente nella nostra dimensione animale e non per ciò che ci differenzia dagli animali, vale a dire come esseri che si riproducono attraverso una particolare attività fisica – il lavoro – che nella maggior parte dei casi è tutt’altro che sedentaria.

Per quanto all’Irragionevole possa risultare fastidioso, infatti, la caratteristica peculiare degli esseri umani è quella di lavorare, il che non significa che la natura (inclusi gli animali) non possa essere sfruttata. Ma non può essere sfruttata nel senso umano del termine, vale a dire per estrarne pluslavoro (che, in una società capitalistica, diventa plusvalore), in quanto nella misura in cui gli oggetti “naturali” sono prodotti capitalisticamente (es. gli animali da allevamento) il loro valore si ritrova nella merce; a differenza della forza-lavoro che oltre a riprodurre nella merce il proprio valore ne aggiunge di nuovo. Se poi gli oggetti naturali sono effettivamente tali, vale a dire non sono prodotti dall’uomo, il “lavoro” che essi compiono non si ritrova per niente, è totalmente gratis. Ma una società che si basa sull’accumulazione privata del lavoro non pagato degli esseri umani non può certo “ripagare”, conservandone la capacità riproduttiva, i servigi degli elementi naturali ed è inevitabile che li sprechi.

Il problema, dunque, non sta soltanto nella definizione di sussistenza ma anche nella definizione della quantità di cibo medio disponibile per il consumo umano. I numeri, a tal proposito, provengono dai c.d. “bilanci alimentari” nazionali compilati dalla Fao ogni anno che stimano la quantità di ciascun prodotto alimentare prodotto, importato e prelevato dalle scorte per scopi non alimentari. La Fao, quindi, divide l’energia equivalente di tutti gli alimenti disponibili per il consumo umano da parte della popolazione totale per ottenere un consumo energetico medio giornaliero.

Oltre a quanto già detto per la dimensione qualitativa del nutrimento e alle obiezioni che si potrebbero muovere riguardo l’affidabilità dei dati per molti paesi, la confrontabilità dei numeri, ecc, quel che emerge è l’assenza di una qualunque considerazione sul tipo di cibo prodotto e quindi sul modo in cui è prodotto. In Italia, ad esempio, non ci si nutre di chicchi di grano ma di pastasciutta cotta quindi pensare che più grano equivalga automaticamente ed istantaneamente a più cibo significa dimenticare tutta l’industria che dev’essere attivata e ampliata per permettere i cambiamenti programmati. Detto in altri termini, se si vuole affrontare il problema del livello di sussistenza bisogna affrontare anche il problema del tipo di vita lavorativa che si conduce. Ma se diminuiamo il grado di sfruttamento della forza-lavoro e ne miglioriamo considerevolmente le condizioni di impiego (o se diminuiamo il tasso di sfruttamento della natura), a parità di forza produttiva del lavoro (organizzazione, tecnologia, ecc) ciò si ripercuote negativamente sui livelli produttivi, tagliando dunque le calorie a disposizione.

E con questo veniamo al secondo punto contestato dall’Irragionevole, quello di voler enfatizzare l’idea di progresso. Quel che egli non capisce, però, è che tutta la sequela di sconvolgimenti climatici e ambientali determinati dal modo in cui il cibo viene prodotto non sono causati da quello che chiama “espansionismo spropositato delle forze produttive” ma dal loro espansionismo “incontrollato” (alias anarchico o capitalistico che dir si voglia). L’impronta ecologica dell’Italia, infatti, non dipende dall’esistenza delle industrie o dai consumi ma dalla subordinazione delle industrie e dei consumi agli interessi capitalistici. In altri termini, non è il petrolio ad inquinare ma l’utilizzo capitalistico dello stesso giacché in una società capace di pianificare la propria esistenza e riproduzione se ne farebbe un uso compatibile con le necessità sociali che non possono non includere il corretto ricambio organico con la natura; prendendo in considerazione, dunque, non il prezzo (la forma monetaria che assume il valore, vale a dire il tempo di lavoro socialmente necessario oggettivato) ma tutti gli effetti, positivi e negativi, generati dalla sua estrazione, trasformazione, trasporto, consumo, ecc. Ma ciò significa presupporre l’esistenza di una società socialista (o comunque la si voglia chiamare) che invece va costruita.

Il problema, dunque, come detto nel precedente articolo, non è tanto sapere se il cibo è già oggi sufficiente per tutti oppure no, ma capire che pretendere di cambiare il modo in cui gli alimenti prodotti sono distribuiti senza cambiare il modo in cui sono prodotti, equivale a voler curare i sintomi di una malattia invece che le cause. Se si conosce l’abc del funzionamento del modo di produzione capitalistico (ed invito l’Irragionevole ad approfondire il tema) si sa che esso porta inevitabilmente alla creazione di un eccesso di popolazione che non potendo valorizzare il capitale non ha diritto a riprodursi e quindi viene legalmente privata del cibo e del conseguente diritto alla vita. Nel capitalismo, purtroppo, se non sei sfruttatore sei sfruttato. Per cui se, come dicono, gli animalisti vogliono liberare la natura dal barbaro sfruttamento cui è sottoposta ed assicurare l’armonia tra la nostra specie ed il pianeta, devono prima liberare dallo sfruttamento i lavoratori affinché esso possa finalmente imparare a gestire razionalmente sé stesso ed il mondo di cui è parte.

13/04/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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