Quando comincia a scrivere le musiche di quello che diventerà West Side Story Leonard Bernstein è un giovane pianista e direttore d’orchestra già noto nel mondo della musica colta: nel 1943 è il direttore assistente della Filarmonica di New York, nel ’45 viene nominato direttore dell’orchestra del New York City Center, nel ’53, quando comincia a scrivere l’opera dedicata all’infelice storia d’amore tra Maria e Tony e contemporaneamente lavora all’operetta Candide, dirige alla Scala Maria Callas e Fedora Barbieri nella Medea di Luigi Cherubini. Ha già composto due sinfonie, alcuni balletti e due musical, On the town nel 1944 e Wonderful town nei primi anni Cinquanta. Il primo è noto per la versione cinematografica intitolata Un giorno a New York con Gene Kelly – che fu anche il regista del film, insieme a Stanley Donen – e Frank Sinatra. Wonderful town – la storia di due sorelle che arrivano a New York decise a far fortuna rispettivamente come scrittrice e attrice – nonostante il successo di Broadway, non diventò mai un film: forse rappresentare la storia di due giovani donne indipendenti era troppo per i signori degli studios degli anni Cinquanta.
Nel 1953 il trentacinquenne Bernstein riceve la proposta di scrivere le musiche per un libretto del suo quasi coetaneo Arthur Laurents, uno scrittore e sceneggiatore che era finito nella “lista nera” del senatore McCarthy perché dichiaratamente omosessuale e di sinistra, e che quindi non riusciva più a lavorare a Hollywood. Al progetto viene chiamato anche un altro giovane – aveva poco più di vent’anni – Stephen Sondheim, che deve scrivere i testi delle canzoni. Nasce così West Side Story, uno dei capolavori del teatro musicale del Novecento, che debutta al Winter Garden Theater di New York il 26 settembre 1957, diretto da Jerome Robbins, che fu anche l’autore delle coreografie, che noi possiamo vedere grazie al film del 1961, diretto dallo stesso Robbins e da uno dei grandi artigiani di Hollywood, Robert Wise. Anche Robbins venne indagato dal Comitato per le attività anti-americane. Su di lui furono fatte forti pressioni e si arrivò al ricatto: se non avesse collaborato, sarebbe stata resa pubblica la sua omosessualità; e così Robbins denunciò se stesso e diversi colleghi. Come noto Arthur Laurents ha scritto West Side Story come una sorta di versione moderna di Romeo e Giulietta, ambientata in un quartiere di New York allora controllato dalle gang, dove le tensioni razziali erano molto forti. L’autore non fa mancare i punti di contatto tra le due opere: il primo incontro dei due innamorati avviene durante il ballo, la grande scena d’amore si svolge su un balcone, il destino tragico dei due personaggi è deciso da un inganno. Credo però che il solo riferimento alla tragedia di Shakespeare sia riduttivo: West Side Story è qualcosa di diverso e forse ancora più coinvolgente, grazie anche alle geniali musiche di Bernstein, che mescola musica contemporanea, melodramma, jazz, classica, in uno stile unico e irripetibile. Certo c’è la storia dei due giovani che si amano, nonostante appartengano a contesti sociali e familiari che si combattono. A Romeo e Giulietta pesa essere un Montecchi e una Capuleti, sentono di essere parte delle loro famiglie, con tutto quello che questo comporta, nel bene e nel male, ma è in qualche modo un ostacolo esterno, qualcosa che loro immediatamente superano in nome del loro amore. Romeo e Giulietta sono separati solo dal nome e al nome – come dice la giovane donna all’amato – si può rinunciare.

Che cos’è un nome? Quella che chiamiamo “rosa” anche con un altro nome avrebbe il suo profumo.

Per Tony e Maria è più complicato: sono nati in paesi diversi, la loro pelle ha un colore diverso, parlano una lingua diversa. La loro vita nell’America degli anni Sessanta sarebbe stata difficile anche se la storia avesse avuto un altro epilogo, meno tragico. Maria a New York non ha una famiglia, ha solo suo fratello Bernardo e quando Tony, accecato dalla rabbia per la morte dell’amico Riff, lo uccide durante uno scontro tra le due bande, uccide tutta la famiglia di Maria. E questo ha un peso drammaturgico che non c’è nella tragedia scespiriana.E poi c’è in West Side Story l’invenzione di Anita, che diventa il motore che muove tutta l’azione del secondo atto, fino al suo tragico epilogo. Anita, la ragazza più grande, quella che in qualche modo nel resto dell’opera ha sempre protetto Maria, ora è durissima con lei, è piena di rabbia perché ha appena perso l’uomo che amava e getta tutta il suo risentimento in faccia alla sua giovane amica. Le dice che deve lasciare

a boy like that who’d kill your brother.

Le dice che deve dimenticarlo e che deve prenderne uno del suo paese.Maria sa che Anita ha ragione:

It’s true for you, not for me.

E qui Sondheim ha scritto alcuni dei più bei versi d’amore della storia della musica

I have a love, and it’s all that I have,
right or wrong, what else can I do?
I have a love, and it’s all that I need.

Le parole di Maria sono semplici, di una sintassi banale, ma sono perfette. E sfidano Anita, il suo amore per l’uomo che ha perso. 

You were n love – or so you said.
You should know better.

A questo punto, siamo quasi al finale, all’epilogo della storia, Maria e Anita cantano – e piangono – insieme. Anita vede in Maria l’amore che lei ha provato per Bernardo e si arrende alla forza di questa giovane donna. E allora, grazie a questa forza, Anita decide di aiutare Maria, vuole parlare con Tony, cerca i Jets, ma viene derisa, umiliata, offesa.Nel 1984, ventisette anni dopo il debutto, Leonard Bernstein ha diretto, per la prima e ultima volta, l’intera opera, per un’incisione che è entrata nella storia della musica, con Kiri Te Kanawa nel ruolo di Maria, José Carreras in quello di Tony e Tatiana Troyanos come Anita. Qui potete ascoltare il duetto che ho cercato di raccontarvi, nello spezzone di un bellissimo documentario girato durante quella intensa settimana di registrazione. Tatiana Troyanos è incredibilmente brava a rendere il passaggio dalla rabbia alla consapevolezza della forza dell’amore.
E a questo punto non è più Montecchi contro Capuleti, Jets contro Sharqs, capisci che non è mai stato questa la vera dicotomia. La vera cesura è tra chi accetta l’amore e chi lo rifiuta, tra le donne come Maria e Anita che capiscono la forza di questo sentimento e gli uomini che tentano di controllarlo.
West Side Story è un’opera sulla forza delle donne. All’inizio del secondo atto, dopo il canto di gioia di Maria, mentre si svolge un balletto, da fuori scena si sentono i primi versi di Somewhere, che poi viene ripreso dall’intera compagnia. Nello spettacolo questa canzone veniva cantata da Reri Grist, che interpretava Consuelo; la Grist diventerà una delle più importanti soprano afroamericane del suo tempo. Nella registrazione dell’84 Bernstein affida questa canzone alla grandissima Marilyn Horne. E’ un’aria classica, quasi sacra, il canto del corifeo in una tragedia greca.

Someday
somewhere
we’ll find a new way of living
we’ll find there’s a way of forgiving

Con queste parole, sussurrate, Maria stringe a sé il corpo ormai senza vita di Tony.E il finale è tutto di Maria: quando Tony muore tra le sue braccia, ucciso da Chino, mentre arrivano le due bande pronte a ricominciare la battaglia, lei si alza e tutto il suo dolore si trasforma in una forza sacra. Maria, che pochi momenti prima abbiamo sentito cantare, con l’entusiasmo di un’adolescente I feel pritty, all’improvviso non è più una bambina, è più forte di tutti, delle bande, della polizia, tutti si devono piegare a lei. Maria, a differenza di Giulietta, non muore, ma diventa una sorta di testimone sacra, una Madonna dell’amore doloroso.

Say it loud and there’s music playing.
Say it soft and it’s almost like praying.

Ma alla fine nessuno ha il coraggio di pronunciare il nome di Maria.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

Un pensiero su “West Side Story: la forza di Maria”
  1. Buongiorno,
    sono Simonetta, appassionata del musical americano del secolo scorso, sia del primo come del secondo dopoguerra. Um genere musicale, quasi sempre di altissimo profilo artistico, ma sopratutto un genere di spettacolo in grado di distribuire sogni ed emozioni rimaste indelebili nella memoria di più generazioni di individui e a tutte le latitudini.
    Ho trovato molto bella ed accurata tutta la sua analisi di introspettiva del film e, in particolare, assai ben delineata la figura di quel vero e proprio “gigante” artistico che fu Leonard Bernstein. Uomo dalla genialità superlativa, poliedrica, anzi caleidoscopica… per cui, destinato inevutabilmente a non essere mai sufficientemente compreso, amato… interpretato! Sappiamo bene come il troppo talento, spesso rappresenti un limite poderoso per chi lo possiede… vuoi perché il suo potenziale creativo può diventare, in qualche modo, anche autodistruttivo. Vuoi perché, piu semplicemente, chi viene dotato da Madre Natura di un grandissimo talento artistico, non riesce quasi mai ad incanalarlo in modo coerente ed equilibrato. Al punto da non riuscire quasi mai ad eccellere nei risultati ottenuti, in proporzione al proprio potenziale effettivo, ma riuscendo più spesso a scontentare i palati dei critici più raffinati, che mal sopportano questi “fenomeni” che mal sopportano di farsi rinchiudere in un recinto di cliché e stereotipi creativi che rappresentano le “Stelle fisse” di un immenso Universo artistico dove, al massimo, ti può essere riconosciuta la sola libertà di girare all’infinito nella propria orbita.
    Ma non vorrei divagare troppo… lei ha scritto cose bellissime e documentatissime, evidentemente, per cui qualunque altra riflessione personale finirebbe solo per appesantire inutilmente un’analisi critica perfetta.
    In un’ unica cosa dissento totalmente. E cioè nell’aver identificato in quella registrazione della sua opera fatta da Bernstein in sala d’incisione una sorta di apoteosi del Maestro e dei suoi interpreti, a mio avviso, tutti indistintamente inferiori ( per capacità interpretativa e per registro vocale!) agli agili, leggeri, grintosissimi, strepitosi interpreti della colonna sonora originale del film. Sia la Kanawa che Carreras che la Troyanos risultano totalmente incapaci di assumere l’agile “passo” ritmato, e molto jazz, che è parte consustanziale del musical originale… sono tutti e tre “pesanti”, semore troppo lenti nelle evoluzioni vocali, nel fraseggio ritmico… sempre fuori vontesto, dunque, quadi stralunati. Quasi fossero atterrati, per un incidente di percorso, in un pianeta che non è il loro… e mai lo sarà. Perché i cantanti d’Opera, checché se ne dica, non saranno mai cantanti adatti ad interpretare il musical, che è stato un genere musicale totalmente nuovo e che, pertanto, resterà sempre avulso dalla Estetica musicale dell’Opera lirica di impianto classico e ottocentesco. Mi spiace per il grande Leonard Bernstein che, proprio in questa sua scelta pretestuosa di far interpretare il suo capolavoro da tre cantanti d’Opera “di tradizione”, rivela in modo più che manifesto le sue inconsce frustrazioni per non essere mai stato effettivamente preso abbastanza sul serio come musicista e compositore di tradizione classica e sinfonica.
    Avrebbe semplicemente dovuto infischiarsene dei consensi paludati e saccenti degli accademici e delle Conservatorie musicali, sentendosi forte solo della sua immensa potenzialità creativa, espressiva e innovativa… ma non fu così. Nella sua complessa struttura psicologica, permeata di quella consustanziale “nostalghja” da Ebreo errante che ha quasi sempre accompagnato gli artisti transfughi dalla madrepatria europea, per le persecuzioni razziali, credo che il fortissimo e archetipico legame con la madrepatria europea si manifestasse anche così. Con il reiterato e costante tentativo di farsi “reintegrare” nel solco della grande tradizione musicale classica del Vecchio Continente, cercando in ogni modo di adattarne i modelli e gli stilemi alle proprie composizioni, che finirono per essere sempre troppo ambivalenti e bifrontali, con la prevedibile conseguenza di non essere mai abbastanza apprezzate e “riconosciute” dalla Critica musicale, ufficiale e militante.
    Un giudizio impietoso, gretto e non certo lungimirante, arretratissimo, di cui lui però soffrì sempre. Da vero Ebreo errante, infatti… seppur con quel cote’ aristocratico, carismatico, magnetico e piuttosto supponente che lo contraddistinse sempre, rendendolo unico e… irripetibile!
    Lui però, dentro di sé si sentiva, o “avrebbe voluto essere”, un Von Karajan, credo… ma ahimè, il Destino gli affido’ il ruolo di esserne, per certi aspetti, solo il suo Alter Ego in versione kletzmer o yiddish… buono sopratutto per Broadway, Radio City, le luci di Manhattan e forse del Metropolitan… lontane anni luce, ahimè, dai palcoscenici dei più titolati teatri d’Opera europei!
    E credo sinceramente che questa percezione della evidente se-parazione culturale che lo differenziava in modo quasi fatale e consustanziale dai compositori di impronta classico-sinfonica, tradizionale, lo perseguito’ suo malgrado tutta la vita… facendolo anche non poco arrabbiare, presumo.
    Io c’ero alla Scala, infatti, quando il Maestro nei primi anni 70 venne a dirigere un concerto, per me memirabile, presentando anche una sua composizione. E ricordo ancora perfettamente le critiche sarcastiche, irriverenti e denigratorie che apparvero sul Corsera giorni dopo, a commento di una serata che a me, giovanissima uditrice, era sembrata meravigliosa, totalmente nuova ed esaltante, oltreché divertente. Anche nel vedere come il Maestro si trascino’ e saltello’ sul podio tutta la serata, con una mimica irresistibile e totalmente preso dal pathos della Musica che veniva eseguita dall’orchestra, con un suono incandescente e brillantissimo come “mai” mi era successo di ascoltare fino ad allora! Ma Bernstein non si accontentava di dirigerla, la Musica… diventava Musica e sinfonia lui stesso!
    E chi avrebbe mai potuto perdonarglielo fra quei critici pedanti, frustrati e parrucconi seduti in platea, che avevano il compito sistematico di killerare Bernstein, immancabilmente, il giorno dopo? E così fu, infatti. Ed è anche da quell’episodio che vomibciai a capire cone va il Mondo… e nell’Arte sopratutto.
    La saluto molto cordialmente,
    Simonetta

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