FULVIO VASSALLO PALEOLOGOF
Ci sono anche i migranti tra le vittime della guerra civile innescata in Libia dal conflitto interno al mondo arabo e dagli interessi delle grandi potenze occidentali. Ue e Onu hanno fallito: a decidere e a mediare in Libia come in altri paese sono ormai i grandi gruppi economici e le alleanze che si formano nelle guerre per l’accaparramento delle risorse energetiche del pianeta. Su questo e non su altro si gioca il destino di milioni di persone. “Il sangue che scorre a Tripoli, come nel resto della Libia, lo stesso sangue che scorre nella indifferenza generale nello Yemen e in tanti paesi dell’Africa subsahariana – scrive Fulvio Vassallo -, il sangue che si versa a Gaza, o in Afghanistan e in Iraq, anche il sangue dei tanti attentati terroristici che si ripetono nelle parti più distanti del mondo, è sangue delle vittime di una guerra globale all’umanità che si sta combattendo innalzando bandiere di vario colore e agitando inesistenti guerre di religione, utilizzando le sigle terroristiche più diverse, ma sempre e soltanto in nome di interessi economici e di egemonia militare…”
di Fulvio Vassallo Paleologo*
In Libia è guerra civile
Le immagini strazianti confermano quanto denunciavamo da tempo, come ci siano anche migranti tra le vittimedella guerra civile innescata in Libia dal conflitto interno al mondo arabo e dagli interessi delle grandi potenze occidentali, incapaci di fermare le milizie contendenti prima che queste attaccassero le popolazioni civili. Diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono state bloccate dai veti incrociati di Stati Uniti e Russia, mentre la Francia pratica una politica del doppio gioco, con Serraj e con Haftar, che ha spaccato l’Unione Europea. Intanto l’Italia, con la diplomazia parallela condotta da tempo dall’ENI, per garantire sicurezza ai propri impianti e ai dipendenti, mantiene buoni rapporti di collaborazione con le milizie legate al LNA di Haftar nelle zone in cui i giacimenti petroliferi sono passati sotto il controllo del generale, che a Tripoli Serraj, nostro alleato, definisce come un “rinnegato”.
Sul piano delle relazioni commerciali si comincia a profilare quella divisione della Libia in due, se non tre parti, che a fronte dello stallo della battaglia sul campo potrebbe essere quanto meno un passaggio intermedio per la fine delle ostilità. Di certo anche in questa prospettiva le condizioni indegne dei migranti, e in misura diversa delle popolazioni sfollate dai territori di origine, rischiano di diventare endemiche, con un accresciuto potere delle organizzazioni criminali che potranno lucrare sull’ennesima frontiera inventata per ragioni meramente politiche. A quel punto risulterà decisivo verificare lo schieramento della sedicente Guardia costiera libica, per adesso legata al governo Serraj, che in questi giorni sembra scomparsa nel nulla, forse perche’ sta armando, in violazione dell’embargo, le motovedette che le sono state donate dal governo italiano.
Nei centri di detenzione di Tripoli, finanziati dall’Unione Europea con l’Africa Fund Trust, tramite l’Italia, e riempiti di migliaia di persone, intercettate in acque internazionali e respinte verso l’inferno dalla Guardia costiera libica, coordinata ed assistita dall’Italia, le milizie di Haftar stanno uccidendo e violentando persone inermi. Persone, compresi donne e bambini, da mesi esposti ad abusi anche nei cosiddetti centri “governativi”, gestiti dal DCIM , Dipartimento anti immigrazione del governo Serraj, che adesso sono privi di qualsiasi tutela, a parte le poche centinaia di trasferimenti realizzati da UNHCR ed OIM, che, a causa degli scontri armati in corso in tutta la Libia, hanno dovuto limitare la loro attività. Sono diventati ancora più difficili anche i cosiddetti “rimpatri volontari”, per adesso in prevalenza dalla Libia verso l’Egitto e la Nigeria. Le destre al governo in Europa non prospettano soluzioni ma si limitano a rilanciare allarmi sempre più eclatanti, prima con l’ennesima emergenza invasione, adesso, di fronte al fallimento di tutte le loro politiche migratorie, evocando il fantasma del terrorismo internazionale, l’arma totale che viene utilizzata per sfruttare la paura della “gente” e spingere gli stati verso una degenerazione autoritaria. Lo insegna la storia e la storia sembra ripetersi ancora una volta.
Ue e Onu sostituiti dai grandi gruppi economici
Alla vigilia delle elezioni europee, la guerra civile in Libia segna il disfacimento, probabilmente irreversibile, dell’Unione Europea e il ridimensionamento della capacità delle Nazioni Unite di mediare nei conflitti regionali, conflitti che adesso assumono molto più rapidamente di prima una dimensione globale, al di fuori delle sedi di composizione dei contrapposti interessi che una volta erano offerte dalle istituzioni internazionali. Alla fine, a decidere ed a mediare sono i grandi gruppi economici e le alleanze che si formano nella guerra per l’accaparramento delle risorse energetiche del pianeta. Su questo e non su altro si gioca il destino di milioni di persone, private dalla evoluzione tecnologica di qualsiasi possibilità di elaborare un pensiero critico e di contrastare la politica delle fakenews con la quale i gruppi più forti sul piano della comunicazione condizionano gli istituti della democrazia costituzionale. Laddove non sono le armi dei generali a dettare la loro legge.
Il sangue che scorre a Tripoli, come nel resto della Libia, lo stesso sangue che scorre nella indifferenza generale nello Yemen e in tanti paesi dell’Africa subsahariana, il sangue che si versa a Gaza, o in Afghanistan ed in Irak, anche il sangue dei tanti attentati terroristici che si ripetono nelle parti più distanti del mondo, è sangue delle vittime di una guerra globale all’umanità che si sta combattendo innalzando bandiere di vario colore e agitando inesistenti guerre di religione, utilizzando le sigle terroristiche più diverse, ma sempre e soltanto in nome di interessi economici e di egemonia militare. La guerra contro i migranti intrappolati in Libia è solo un tassello di questo conflitto globale. Ma è anche la guerra sulla quale l’Italia finisce inevitabilmente per ritrovarsi in prima linea, anche se si cerca di negare l’evidenza, come fa il ministro dell’interno che continua a parlare di “scontri”. Salvo a rilanciare improbabili numeri da invasione di “clandestini” o a preparare l’arma di propaganda di massa della minaccia terroristica, in vista delle prossime scadenze elettorali.
Le rivolte in Sudan, Algeria e Corno d’Africa
Forse, i segnali più importanti arrivano proprio dall’Africa. Nel Corno d’Africa, e poi dal Sudan all’Algeria, si registrano segnali importanti di rivolta contro le dittature militari, che potrebbero estendersi a molti paesi africani, e che potrebbero forse ridimensionare la contrapposizione oggi “dominante” in Libia tra Serraj ed Haftar, due leader che hanno entrambi dimostrato di non sapere garantire i diritti fondamentali delle persone sulle quali aspirano a governare. I cittadini di Bengasi prima, e di Tripoli adesso, se ne sono accorti sulla loro pelle. Sarebbe tempo che fosse rispettata la volontà dei cittadini libici, senza condizionamenti imposti da leader determinati da potenze straniere. Per i migranti intrappolati in Libia vanno individuati al più presto canali sicuri di evacuazione di massa, ben oltre i ridottissimi limiti numerici consentiti dai cosiddetti “corridoi umanitari”. La distinzione tra migranti economici e potenziali richiedenti asilo, nelle attuali condizioni di guerra civile della Libia non appare più sostenibile.
Per le Nazioni Unite, in ogni caso, e dunque per qualunque governo del mondo, “la Libia non può essere considerata un luogo sicuro di sbarco”, come ricorda il più recente rapporto diffuso a livello mondiale.
L’UNHCR esclude tuttora che la Libia, meglio nessuno dei diversi centri di potere nei quali è divisa, soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro a fini di sbarco in seguito ai salvataggi in mare. La istituzione di una struttura di raccolta e partenza a Tripoli, gestita direttamente dalle nazioni Unite, come alternativa alla detenzione negli altri centri “governativi” non modifica la posizione dell’UNHCR secondo cui la Libia non può essere designata come luogo sicuro ai fini dello sbarco, considerato peraltro che tutte le persone trasferite in tale struttura necessiterebbero comunque di essere evacuate dalla Libia per ragioni legate alla protezione, anche se tale alternativa potrebbe non essere a disposizione di tutti.
In Europa la crisi del parlamentarismo e la spaccatura dell’Unione Europea con l’avanzata dei partiti populisti, finanziati e sostenuti da Trump e da Putin, con lo stratega Bannon che recluta adepti ad est e ad ovest, stanno spingendo verso la disillusione e la caduta della partecipazione popolare, nella consapevolezza sempre più diffusa dello svuotamento della rappresentanza politica. Le prossime elezioni europee potrebbero segnare il declino definitivo dell’Unione Europea come soggetto unitario in grado di garantire pace e stabilità. Fino a quando i cittadini europei non si libereranno dai leader nazionalisti ai quali hanno assegnato tutta la loro fiducia non vi sarà futuro per l’intera Europa, ed alcuni paesi più esposti, come l’Italia, potrebbero trovarsi direttamente su un fronte di guerra., nel più totale isolamento internazionale. Ci vorranno anni, forse generazioni, per una inversione di tendenza, a meno che una guerra non tocchi direttamente la vita di coloro che ritengono che soltanto rinchiudersi in un recinto ( la fortezza Europa o la nazione Italia), possa garantire maggiore sicurezza.
Nessuno può pensare di chiudere porti e frontiere
L’Europa (e tanto meno l’Italia) non è più neppure una fortezza, e nessun paese da solo può pensare che chiudere porti e frontiere, o moltiplicare le espulsioni, possa servire a rallentare i movimenti dei migranti in fuga verso la vita. Se un calo negli ingressi apparentemente consistente si verifica, come oggi si verifica sulla rotta del Mediterraneo centrale, dipende dalle condizioni esistenti nei paesi di origine e transito, dalla chiusura delle vie di accesso al Mediterraneo, dallo stato di guerra ai confini dei diversi paesi dell’Africa subsahariana confinanti con la Libia. Per queste ragioni e non certo per l’allontanamento delle Ong, gli sbarchi sono diminuiti in modo consistente.
Sono solo aumentate le vittime, in mare ed a terra, per effetto della propaganda utilizzata da qualche ministro per respingere, o fare respingere su delega, alcune centinaia di naufraghi soccorsi in acque internazionali, per i quali gli stati avrebbero avuto comunque l’obbligo di indicare un porto sicuro di sbarco. Le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici non faticano a riconvertirsi ed a rinnovarsi sulla base delle mutate condizioni politiche internazionali, arrivando a diventare persino determinanti per lo sviluppo dei commerci (basti pensare alla sicurezza dei terminali petroliferi) e per la agibilità fisica dei territori (chek point). Il caso della Libia ne è l’esempio più eclatante. Quanti trafficanti internazionali di migranti sono stati bloccati in questi anni in Libia, in base agli accordi stipulati con tribù e milizie libiche da Alfano, Gentiloni, Minniti, Salvini, Avramopoulos (Commissario UE) o Legeri ( di Frontex)?
Si considera soltanto il dato numerico di possibili arrivi, gli sbarchi “facilitati”dalle ONG, trascurando del tutto la sorte delle vittime, in mare e in Libia. Una prospettiva che va capovolta. Anche non fornire tutela contro i trafficanti è un crimine direttamente imputabile ad uno stato che aderisce alla CEDU. Lo ha affermato in una sentenza anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nel caso Ramtsev contro Cipro e Russia. Gli stati che ricadono sotto la giurisdizione della Corte Europea di Strasburgo non possono sottrarsi agli obblighi derivanti dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo o dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, delegando a paesi terzi compiti di esternalizzazione dei controlli di frontiera, fornendo a tal fine mezzi e organizzazione tecnica e di personale, come ha fatto l’Italia con la missione Nauras, di base da anni nel porto militare di Tripoi (Abu Sittah). Nella Libia di oggi, in nessuna delle sue frammentazioni territoriali, esistono quelle condizioni e quelle garanzie dei diritti fondamentali che caratterizzano lo stato di diritto.
L’Italia in Libia
L’Italia è presente dal luglio del 2017 nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah) con la missione NAURAS, con una nave e altri mezzi tecnici per garantire assistenza e coordinamento alla Guardia costiera libica ( LCG) . Quali garanzie in Libia per le vittime delle intercettazioni consentite dal coordinamento italiano Nauras a Tripoli?
Tra le attività di supporto della missione Nauras a Tripoli, rientrava, fino al 28 giugno 2018, anche“l’importante compito di aiutare i libici a interfacciarsi con la Centrale operativa della Guardia costiera a Roma che coordina le operazioni di ricerca soccorso nel Mediterraneo centrale”. Questo coordinamento italiano delle attività di intercettazione in mare, affidate già alla cosiddetta Guardia costiera “libica“ e ribadito adesso anche dal ministro Toninelli, risulta da una specifica documentazione acquista agli atti del processo di convalida innescato dal sequestro della nave Open Arms nel porto di Catania. Come emerge da una successiva documentazione, questo coordinamento è proseguito anche dopo la creazione di una zona SAR “libica”, comunicata all’IMO a Londra dal governo Serraj nel mese di giugno del 2018. Un recente articolo del giornale Avvenire conferma ancora in questi giorni le attività di coordinamento svolte a Tripoli dalle unità della missione Nauras.
Mentre i crimini contro l’umanità continuano a ripetersi sulla pelle dei migranti intrappolati in Libia e contro quei pochi che riescono a fuggire, ma vengono ancora intercettati in acque internazionali e riportati indietro, rimane il dovere della denuncia e della documentazione, anche fotografica, degli abusi. Perché, comunque, un giorno verrà nel quale chi si è reso autore o complice di queste violazioni dei diritti umani sarà tenuto a risponderne. E nessuno potrà dire “io non sapevo”.
Questo articolo è già stato anche pubblicato sul blog di Adif (con il titolo originale completo Da Washington e Mosca a Parigi e Roma. Tutti complici in crimini contro l’umanità. Guerra civile in Libia).
*Avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti”, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo. È componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell’Università di Palermo