Per questa ragione Croce definì il fascismo una crisi morale europea senza alcuna radice sociale (borghesia) o politica (liberalismo) riconducibile al suo album di famiglia e, oggi, i suoi discendenti, anziché studiare le responsabilità endogene del collasso liberale, preferiscono considerare il fascismo una conseguenza del fanatismo totalitario bolscevico, non il prodotto storico del colonialismo e del suo portato ideologico autoritario e razzista di dominio assoluto di una civiltà sulle altre. L’operazione del “Corriere della sera” annunciata in questi giorni, che si dimentica totalmente di storicizzare le gravi colpe del liberalismo italiano, conferma questo canone interpretativo e la scelta di campo autoindulgente e conservatrice. Eppure, non sono mancati studiosi e intellettuali liberali, come Denis Mack Smith, che hanno localizzato nella debole tradizione liberale e democratica italiana la ragione della capitolazione dei principali leaders liberali di fronte a Mussolini. Così come, in Italia, (senza citare Gramsci) altri liberali come Gobetti e Guido De Ruggiero hanno sottolineato le cause del baratro fascista in una contraddizione tutta interna alla storia politica italiana: l’assenza di una vera dialettica (sociale e parlamentare) tra liberali e conservatori, dunque l’efficacia permanente del dispositivo trasformista nella formazione della classe politica italiana, spiegherebbero la grande facilità con cui le ideologie radicaloidi e sovversive si affermarono da (D’Annunzio a Mussolini) tra le classi dirigenti nazionali. A questo tentativo di analisi autocritica “Il Corriere della sera” contrappone la vecchia ferramenta dell’autodifesa ideologica, lanciando una nuova operazione revisionista, il cui unico intento è (nuovamente) mettere sullo stesso piano il nazifascismo con i tentativi rivoluzionari del Novecento, equiparando Mussolini e Hitler a Lenin e Fidel Castro. Quando questi liberali con la memoria corta faranno finalmente i conti con le loro storiche responsabilità rispetto al fascismo sarà sempre troppo tardi. Basterebbe ricordare, ad esempio, che Mussolini entrò in parlamento con il suo manipolo di trogloditi grazie alla gentile ospitalità delle liste di Giovanni Giolitti e non con il lasciapassare di Lenin. Peccato, perché, se recuperasse la memoria smarrita, il giornale milanese potrebbe realizzare un’opera in volumi veramente interessante, spiegando agli italiani come e perché lo storico direttore del “Corriere” (Albertini), il proprio politico di riferimento (Salandra), e il loro filosofo di punta (Croce), salutarono calorosamente l’irruzione della violenza fascista sul movimento operaio e contadino. Ma il versante della lotta ideologica non riguarda solo il passato, al contrario si estende al presente e al futuro con un intento dichiarato: affermare l’assoluta irripetibilità del pericolo fascista sulla base dei propri studi storico-archivistici. Pretendere di comprendere le dinamiche della politica di oggi fondando le proprie certezze solo sulla frequentazione di qualche archivio è una delle tante contraddizioni della storiografia oggi di moda. Difficilmente possiamo parlare del presente e del futuro di una persona solo perché ne conosciamo l’albero genealogico o perché abbiamo avuto accesso a qualche registro capace di documentare il passaggio su questa terra dei suoi avi. L’autopsia di un organismo senza vita ci può dire qualcosa del soggetto che stiamo analizzando, non di quelli che verranno dopo di lui. La politica è materia viva, dialettica, piena di reazioni e controreazioni e ogni forma di determinismo (economico o archivistico) non è in grado di coglierne le dinamiche. La pura descrittività sociologica e il determinismo (in tutte le sue forme) non sono capaci di comprendere il passaggio dal mutamento quantitativo a quello qualitativo, ossia, non sono in grado di prevedere e concettualizzare i salti qualitativi della storia, le grandi rotture che irrompono sconvolgendo la linearità e prevedibilità degli avvenimenti umani. Rileggere le lezioni sulla filosofia della storia di Hegel forse servirebbe. La storia non è solo una trascrizione notarile di atti e documenti, per quanto questi siano fondamentali alla sua comprensione. In tal senso, affermare solennemente che oggi non esiste un problema “fascismo” solo perché ai giorni nostri non è possibile immaginare la presa del potere da parte di un manipolo di reduci con la camicia nera e il fez, che si esprimono con il lessico e la retorica arditiststa di D’Annunzio, significa confondere la grandezza del divenire storico con la cronaca giornalistica. Sicuramente non rivedremo una marcia su Roma con quelle caratteristiche, perché nulla nella storia si ripresenta nelle stesse forme, ciò nonostante, sebbene non sia corretto applicare l’aggettivo fascista a qualsiasi manifestazione di ideologia reazionaria o conservatrice, esiste oggi una innegabile emergenza democratica a livello internazionale riconducibile alla fascistizzazione del senso comune e della cultura politica prevalente. Il problema di oggi, come dopo la Prima guerra mondiale, è la grave crisi organica del capitalismo mondiale e la contemporanea crisi di egemonia delle vecchie classi dirigenti liberali, ben testimoniata dal panico dei partiti protagonisti dell’unificazione europea, tutti prossimi a un drammatico ridimensionamento elettorale. In un simile contesto, l’elemento comune con il passato è la radicalizzazione sovversiva e reazionaria di strati significativi dei ceti medi, convinti di trovare una soluzione alla crisi mondializzante nel nazionalismo protezionista e grazie a una svolta autoritaria in tutti i principali aspetti della vita sociale. Nel 1919-22 i “nemici interni” delle milizie armate fasciste erano i vecchi dirigenti liberali (incapaci di difendere l’ordine sociale e responsabili della “vittoria mutilata”) insieme al movimento operaio e contadino ritenuto forza di disgregazione antinazionale; oggi i gruppi del sovranismo (con le sue differenti gradazioni) trovano nel nazionalismo antieuropeista, tendenzialmente autoritario antidemocratico, e nella lotta all’immigrazione la base di una nuova identità ideologica combattiva e anticonformista, attraverso la quale contendere il campo della lotta egemonica tanto alle correnti liberali dell’europeismo e quanto alle divisioni superstiti (sempre più esigue) della sinistra. Il punto non è se questo nuovo campo possa essere definito fascista o meno, problema politicamente ozioso, ma utilizzare con attenzione le categorie analitiche forniteci dalla storia per capire se nei loro processi evolutivi troviamo elementi di fascistizzazione tradizionali o inediti. Un lavoro di analisi che, ad esempio, nel Paese dove vivo e lavoro da oramai sei anni (il Brasile) si sta iniziando a fare rispetto al fenomeno “Bolsonaro”. Perlomeno a sinistra, questo sforzo analitico sarebbe da intraprendere, credo, pure in Italia.