Una delle domande che mi sento spesso fare in merito a “quale” sinistra si debba costruire per il futuro riguarda il legame con il passato tanto politico quanto, dunque, culturale con ciò che in Italia è stato il progressismo con tutti i colori del rosso possibili e immaginabili. Affrontare una tematica di questo tipo significa porsi anzitutto il problema di ciò che si vuole essere oggi e nell’immediato domani: il tema dell’identità politica viaggia di pari passo con quello della caratterizzazione culturale e, pertanto, per quanto mi concerne con ciò che oggi non va molto di moda e, sarà forse anche per questo, personalmente mi stimola maggiormente: l’ideologia. Sembra, ormai da alcuni lustri a questa parte, che la sinistra sia capace di trovare una sua dignità politica, sociale e perfino morale solo se si priva di aggettivi, se evita accostamenti per l’appunto con il recente passato quando ancora esistevano “le sinistre” e quindi ognuno di noi era liberamente comunista, socialista, rossoverde e quanto di altro. Il sottobosco delle ulteriori particolarizzazioni (maoismo, trotzkjsmo, leninismo, eurocomunismo, eccetera…) ce lo risparmiamo al momento, ma va detto che il dibattito culturale – a cui viene sempre e solo attribuita una connotazione negativa perché lo si inquadra nell’accezione esclusiva dell’essere fonte di divisione piuttosto che di sintesi (il che non è poi così molto lontano dall’essere vero come ragionamento… ma certamente non è esauribile in questo “pregiudizio”) – è servito alla sinistra italiana dal dopoguerra fino a poco tempo fa per evitare proprio quelle “indistinzioni” che invece oggi sembrano aver trovato terreno fertile nella modernità della “gauche”. L’impresssione è che non siano tanto venute meno le ragioni ideologiche di una sinistra plurale in Italia, quanto ci si sia trovati, mediante un processo di trasformazione anche sociale ma prima di tutto cultural-politico varato dall’individualismo berlusconiano dei primi anni ’90, al traino per l’appunto di un rovesciamento dei punti di riferimento: dal collettivo e dal solidale all’individualismo esasperato e all’egocentrismo marcato di quella famosa “Milano da bere” del tardo craxismo per finire nella rete del liberismo come espressione suprema di un capitalismo polarizzato e in guerra permanente tra le varie ampie concentrazioni di potere nel mondo. La sinistra comunista e quella socialista non cessano di avere “senso” e “significato” perché perdono punti in percentuale rispetto alla corazzata del PCI: perdono e diventano residuali quando non sono più in grado di esercitare una egemonia culturale tra i lavoratori, tra gli studenti e, in generale, nella società che si sta trasformando in un ricettacolo di tanti piccoli egoismi. Vince la logica del “self made man”, del mercato a tutto tondo e perde la solidarietà di classe, arretra la coscienza stessa di essere parte di una classe sociale e prevale la singolarità come fenomeno da un lato di esaltazione delle qualità che vengono percepite come necessariamente uniche al proprio successo (non condivisibili quindi con i propri simili per un “bene comune”) e dall’altro come culto di sé stessi che diventa tanto autoreferenziale quanto egoistico e alla spasmodica ricerca di privilegi invece che di diritti universali. Il punto non è se un lato progressista e di sinistra debba esistere: il punto vero, tornando all’inizio del nostro ragionamento, “quale” sinistra sia utile per il futuro immediato e quindi si debba ricostruire in un presente dove si moltiplicano gli sguardi allucinati di chi vive di odio e fobie antisociali (spacciate per difesa proprio del sociale, della patria, dei sacri confini e corbellerie via dicendo…), rinverdendo anche l’armamentario della “cassetta degli attrezzi” del passato recente ma, prima di tutto, guardando alle generazioni ventenni e trentenni d’oggi che poco o niente hanno vissuto della stagione non solo del PCI, di DP, del PSI e de “il manifesto” (oltre che della Nuova Sinistra) ma pure nell’involuzione (o evoluzione che dir si voglia, a seconda dei punti di vista) del PDS e nel tentativo di preservare al Paese un movimento anticapitalista con Rifondazione Comunista. Spesso abbiamo ripetuto che le condizioni che ci fanno essere comunisti nel nuovo millennio non sono venute meno perché il sistema economico, che pure si è notevolmente trasformato rispetto anche soltanto agli decenni del secolo scorso, mantiene il suo schema essenziale: sfruttati e sfruttatori si combattono per la sopravvivenza dei privilegi gli uni e per la mera sopravvivenza quotidiana gli altri. I corpi intermedi sindacali, le associazioni che un tempo erano emanazione del PCI, di una larga e diffusa convinzione che la solidarietà di classe fosse l’architrave del Paese, dello sviluppo e l’interesse primo per la classe lavoratrice e proletaria moderna, hanno subito il trasformismo governista prima del PDS in salsa socialdemocratica e poi la lenta discesa verso la formazione di un nuovo centrosinistra che si è persino superato (dolorosamente) nel Giano bifronte, nella esperienza unica e bislacca del Partito Democratico. La cultura dell’alternativa di società, il legame tra classe sociale e partito, tra lavoratori e sindacato, sono tutte simbiosi che sono state consumate dalla pretesa di rendere “moderno” il ruolo della sinistra attraverso una acquisizione di valori che non le erano propri perché rappresentavano (e tutt’ora rappresentano) la più genuina espressione dell’individualismo egoistico del regime capitalistico. Possiamo quindi parlare non soltanto di “sconfitta storica” della sinistra comunista per quanto concerne i diversi passaggi elettorali da più di dieci anni a questa parte, ma di corrosione dei suoi fondamentali, di annichilimento di una carta di valori mai veramente esistita ma scritta dalle tante esperienze che dalla fine del Secondo conflitto mondiale al 2000 (e oltre) sono state scritte passando per le rivoluzioni del 1968, il riflusso del 1977, i capovolgimenti del 1989, l’altermondialismo del 2001 e poi… il niente. Solo una percezione della sconfitta, l’avanzamento della rassegnazione in gran parte di un popolo che aveva creduto nella possibilità di un cambiamento delle proprie vite tramite il comunismo come “movimento reale” e che è stato tradito da quelle nuove promesse di cambiamento che sono state spacciate come le uniche possibili perché scevre dall’utopia comunista stessa, liberate dalle catene del sovietismo e da una “ideologia” ormai considerata desueta, anacronistica. Chi, da gruppo dirigente, ha costruito quella sinistra “pragmatista”, socialdemocratica, che irrideva alla “rifondazione comunista” come tentativo di riesumare un cadavere, si è trovato a scrollarsi tra le mani pochi decenni dopo il proprio cadavere in virtù del surclassamento subito da una controcultura che aveva volontariamente o meno contribuito a creare: berlusconismo da destra e veltronismo / vendolismo da sinistra hanno permesso che il comunismo fosse reputato come inutile, persino dannoso alla causa dei lavoratori tutti. Hanno portato avanti l’idea di una modernizzazione della sinistra che doveva scendere a compromessi con le altre forze borghesi, di centro, per battere le destre prima e poi, tra governi tecnici delle banche e tentativi di soppiantarli con un PD a guida bersaniana, riprovare quella scalata al governo del Paese che era stata fallita dal PDS e che aveva dovuto dotarsi di “grandi alleanze” con Prodi. Intanto, mentre la sinistra di alternativa veniva lasciata da sola al suo destino, accusata nuovamente di essere residuale e minoritaria, coloro che erano “maggioritari” venivano nuovamente battuti e prima i Cinquestelle e poi la Lega facevano breccia nell’ultima grande debacle di una finta sinistra sempre più centro sul piano liberale dei diritti sociali e sempre più destra su quello economico con il renzismo. La storia della sinistra sembrerebbe finita qui. Invece è tutta da ricominciare: proprio dal fallimento di tutti i tentativi di quel tanto sano “pragmatismo” che ha solo distrutto e che non è riuscito a costruire proprio niente. Il comunismo è un po’ come il cristianesimo: in tanti pensano di poter affermare che è morto, che il destino della sinistra è nell’essere “senza aggettivi”, perché chiamarsi “comunista” sarebbe “respingente”, incomprensibile ai più. Alcuni ne fanno addirittura una questione modaiola: non si usa più e quindi quella storia lì… è ormai per sempre consegnata al passato. Troppi passati e troppo pochi futuri. Invece ciò che bisogna rimettersi a fare, con tanta pazienza, è studiare, capire e respingere ogni tentativo, da qualunque parte provenga di imporci una sinistra senza anticapitalismo, senza opposizione “senza se e senza ma” al sistema delle merci e del profitto. Diffidiamo di chi ci dovesse proporre una sinistra moderna senza una ideologia, senza la volontà di ridare proprio al comunismo il ruolo che gli spetta: di essere un movimento che si ricongiunga al lavoro e che, una volta svelato l’inganno antisociale dei sovranisti e dei populisti, eviti che la critica consapevole o inconsapevole di una società ingiusta torni nelle mani dei liberisti “di sinistra” che si fanno chiamare “democratici”. Compito nostro, dei comunisti e delle comuniste, è questo: far vivere e far tornare egemone una ideologia per ridare una vera speranza ad una umanità prostrata, piena di odio, disprezzo, crudeltà e senza un briciolo di sogno e di felicità se non trovata all’interno del claustrofobico regno dell’egoismo. Moderno. Modernissimo… Realtà e sogno “di una cosa” possono convivere, così come ambiente e lavoro, autonomia e unità. Cominciamo a lavorarci. Piano piano, votando il 26 maggio La Sinistra e poi dando più forza a Rifondazione Comunista, per una nuova opposizione politica e sociale in Europa, in Italia.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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