Nel quadro desolante dei risultati delle elezioni europee spiccano, come una delle poche eccezioni, quelli portoghesi, che registrano non solo una discreta avanzata del Partido Socialista, in netta controtendenza rispetto alla maggior parte dei suoi confratelli continentali, ma anche una più marcata avanzata del Bloco de Esquerda, che riesce a più che raddoppiare i propri voti rispetto alle elezioni europee del 2014, consolidando l’alta percentuale già raggiunta nelle elezioni legislative del 2016 e in quelle presidenziali del 2017. di Cristiano Dan – Movimento operaio A questi risultati positivi fanno ombra quelli, fortemente negativi, della CDU, la coalizione imperniata sul Partito comunista, che crolla letteralmente, dimezzando i propri voti rispetto al 2014. Se però, per chiarire meglio il quadro, vogliamo inventarci l’esistenza, in termini puramente elettorali, di un “campo progressista“, dobbiamo inserirvi anche gli “animalisti” del PAN, che ottengono un piccolo ma significativo successo. I guadagni del Partido Socialista, del Bloco e del PAN, sommati, compensano e superano le perdite del Partito comunista e delle altre piccole liste di estrema sinistra, di sinistra e di centrosinistra, facendo così del Portogallo uno dei rari (e forse l’unico) Paese europeo in cui l’insieme delle forze di centro, centrodestra, destra ed estrema destra arretra. Cosa ci dicono le cifre Prima di sciorinare l’inevitabile sequela di numeri e percentuali, è bene precisare che la “felice eccezione” portoghese ha un unico aspetto “infelice”: quello dell’astensionismo. La partecipazione elettorale – anche qui in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei – ristagna infatti a livelli molto bassi, attorno al 30 %, addirittura qualche punto in meno rispetto al 2014. Questo significa, in pratica, che se i confronti con le elezioni europee del 2014 si possono fare agevolmente sia in termini di numeri assoluti (i voti validi in entrambe le elezioni sono stati – arrotondando le cifre – 3.300.000), sia in termini di percentuali. Quando però si passa a fare i confronti con le meno lontane elezioni legislative del 2015, le cose si complicano: i voti validi allora erano stati 5.200.000, e le relative percentuali non possono essere confrontate con quelle attuali (sarebbe come mettere a confronto mele e pere). Per chiarire ancora meglio, rispetto al 2015 tutti i principali partiti (con l’eccezione del PAN) registrano una più o meno forte diminuzione di voti, anche se le percentuali sembrano dirci il contrario. Per esempio, il Partido Socialista, se guardiamo solo alle percentuali, guadagna rispetto alle politiche del 2015 il 2,3 %, ma in realtà ottiene oltre 600.000 voti in meno. Nelle prossime elezioni politiche, previste per l’ottobre di quest’anno, è molto probabile che buona parte o tutti i quasi due milioni di elettori portoghesi che questa volta si sono astenuti tornino a votare, e non è detto che l’attuale quadro politico ne esca confermato. Fatte queste doverose precisazioni, lasciamo parlare i numeri. Il Partido Socialista. Con circa 1.100.000 voti e il 35,9 %, i socialisti ottengono nove seggi, uno in più rispetto al 2014, con incrementi di 70.000 voti e dell’1,8 %. È un risultato in sé non strepitoso, ma – come abbiamo già detto – in netta controtendenza rispetto agli altri partiti socialisti europei, con l’eccezione del PSOE spagnolo. Se scendiamo nell’analisi al livello delle province [1], vediamo come accanto ad incrementi più robusti in varie di esse (particolarmente forte quello nella industriale Setúbal: 6,0 %, in buona parte a spese del Partito comunista, che qui perde quasi il 12 %), in quattro registra invece lievi decrementi: siamo insomma di fronte a un’avanzata, ma non particolarmente forte e con qualche punto di debolezza. Il Bloco de Esquerda Con quasi 330.000 voti, il 10,6 % e 2 seggi, il Bloco guadagna 180.000 voti, il 5,7 % e un seggio, confermando ancora una volta, dopo le politiche del 2016, di aver superato la crisi che lo aveva investito nel 2014 e che si era tradotto in una serie di piccole scissioni. La sua avanzata è netta in tutte le province, con punte del 6,6 % a Castelo Branco, del 6,0 % a Faro e del 7,7 % a Coimbra. L’avanzata del Bloco riesce a compensare quasi del tutto le perdite del Partito comunista (meno 6,3 %). La Coligação Democrática Unitária Si tratta del cartello elettorale (invariato dal 1987) fra il Partido Comunista Português e il Partido Ecologista Os Verdes. Con 230.000 voti, il 7,4 % e 2 seggi, il cartello perde 190.000 voti, il 6,3 % e un seggio. Le perdite sono generalizzate in tutto il territorio nazionale, ma sono particolarmente accentuate nelle tradizionali aree di impianto del PCP: il sud del Paese (l’equivalente delle “zone rosse” del Partito comunista italiano). Alcuni esempi: Beja meno 10,0 %, Évora meno 11,1 %, Setúbal meno 11,9 %; a Lisbona la perdita è del 7,7 %. È troppo presto per azzardare spiegazioni, ma si possono fare alcune ipotesi: da una parte, l’invecchiamento della popolazione, in particolare nelle province di tradizionale economia agraria, dove il PCP godeva di un forte e duraturo impianto, e l’emigrazione da molte province dell’interno verso quelle costiere sono alcune ragioni “demografiche” che possono spiegare in parte il crollo del PCP (indebolimento della sua base elettorale); dall’altra, il perdurare nel partito di una cultura postaliniana (e a volte ancora staliniana) che gli rende difficile entrare in sintonia con gli strati più giovani e dinamici della popolazione. Va infine sottolineato che l’attuale risultato è il peggiore registrato dalla coalizione sin dalla sua costituzione nel 1987. Il PAN Il PAN (Pessoas–Animais–Natureza: Persone-Animali-Natura) è, come s’è già detto, l’unico fra i partiti più significativi a registrare una crescita continua in voti, nonostante l’astensionismo: 56.000 voti nelle europee del 2014, 75.000 nelle politiche del 2015, 168.000 in queste europee. Le percentuali rispettive sono 1,9 %, 1,4 % e 5,5 %. Si tratta di un partito “animalista”, che in quanto tale attrae voti a prescindere dall’asse destra/sinistra, ma che nelle scelte concrete (nelle politiche del 2015 aveva conquistato un deputato, cui si aggiunge ora un europarlamentare) ha sino a ora appoggiato le misure più di sinistra del governo socialista, in sintonia col Bloco e la CDU. È sulla base di queste scelte concrete (e non su considerazioni di carattere ideologico) che lo abbiamo inserito nel cosiddetto “campo progressista”. A sinistra e a destra del Bloco Per completare il quadro dell’elettorato “progressista”, alcuni brevi cenni ad alcune piccole formazioni. Cominciamo con Livre(Libero), frutto d’una scissione a destra del Bloco, e che si presentava come rappresentante portoghese del movimento di Varoufakis. Con 61.000 voti, ottiene un dignitoso 2,0 %, con un guadagno di 21.000 voti rispetto alle politiche, ma con un arretramento di 11.000 voti e dello 0,4 % rispetto alle precedenti europee. Il Movimento Alternativa Socialista, trotskista dogmatico e che aveva praticato una sorta di entrismo nel Bloco per poi uscirne, si ferma a meno di 7.000 voti e allo 0,2 % (perdendone 5.000 e lo 0,2 %) e a livelli simili si ritrova il Partido Trabalhista Português, col quale il MAS aveva formato una bizzarra coalizione nel 2015: 9.000 voti (meno 14.000) e 0,3 % (meno 0,4). Infine, v’è l’inossidabile e ultrasettario Partido Comunista dos Trabalhadores Portugueses (PCTP/MRPP), 55.000 voti e 1,8 % nel 2014 e 27.000 voti e 0,9 % ora. Complessivamente quest’area eterogenea rappresentava il 5,4 % nel 2014 (165.000 voti), ed è scesa oggi al 3,3 % (103.000 voti). Un bilancio dell’area “progressista” Se tiriamo le somme di tutto ciò che non è riconducibile al centro-centrodestra-destra-estrema destra, ne risulta che l’elettorato “progressista” in senso lato, generico, dal 2014 a oggi è passato in voti da 1.800.000 a più di 1.900.000, in percentuale dal 60,0 al 62,6 % e in seggi da 12 a 14. È questo un calcolo che farà storcere il naso a più d’uno, perché non distingue fra forze anticapitaliste e forze riformiste o addirittura social-liberali (presenti ovviamente nel PS). Ma la distinzione è già stata fatta puntigliosamente più sopra. Quel che qui preme sottolineare è che in Portogallo, a differenza della stragrande maggioranza dei Paesi europei, i partiti dichiaratamente di centro, di centrodestra, di destra e di estrema destra sono minoranza: una cospicua minoranza, ma che non solo non ha sfondato, come è avvenuto quasi ovunque altrove, ma che seppure di non molto è arretrata. Arretrata numericamente, e soprattutto sconfitta politicamente. In altre parole, in Portogallo la partita è ancora aperta, e le carte disponibili non sono solo scartine. Le dimensioni della sconfitta della destra In Portogallo la destra tradizionale è sempre stata rappresentata da due partiti, che facevano entrambi riferimento al Partito popolare europeo (PPE): il Partido Social Democrático (PSD/PPD) e il Partido Popular (CDS-PP). Nel 2014 era presente anche un terzo partito collegato al PPE: il Movimento Partido da Terra (MPT; aveva ottenuto due seggi), ora scomparso. Le formazioni cosiddette “sovraniste” o dichiaratamente d’estrema destra erano del tutto marginali (per esempio il Partido Nacional Renovador, 0,5 %), e solo negli ultimi tempi, soprattutto in seguito a scissioni del PSD, s’erano affacciate all’orizzonte alcune organizzazioni con programmi oltranzisti o apertamente fascistoidi, come la Aliança o la coalizione Basta! (fascisti, monarchici e cattolici teocon). Com’è andata ora? PSD e PP-CDS ai minimi storici PSD e PP-CDS nel 2014 s’erano presentati in coalizione, conseguendo 910.000 voti, il 30,0 % e 7 seggi. Nel 2019 si sono presentati separatamente: 730.000 voti, il 23,6 % e 6 seggi al PSD, 205.000 voti, il 6,6 % e un seggio al PP-CDS. Sommando i loro risultati, abbiamo 935.000 voti, il 30,2 % e lo stesso numero di seggi. Apparentemente, dunque, c’è stato un leggerissimo progresso. O almeno una forte resilienza. Ma le cose non stanno esattamente così. La scomparsa del MPT (230.000 voti nel 2014, il 7,7 % e 2 seggi) avrebbe dovuto alimentare in gran parte i due partiti di destra, e in parte minore il partitino fondato nel 2015 da uno degli eurodeputati del MPT, il Partido Democrático Republicano(PDR). Ma il PDR s’è fermato a 16.000 voti (0,5 %). Mancano dunque all’appello oltre 200.000 voti, dispersisi in vari rivoli e nell’astensionismo. Il bilancio dei partiti che si rifanno al PPE è dunque grosso modo il seguente: meno 200.000 voti, meno 7,0 % e meno due seggi. Ciò che spiega bene la depressione in cui sono piombati i suoi dirigenti. Tanto più se si considera che il PSD non aveva mai ottenuto, da solo, meno di un milione di voti (finora il record negativo era quello delle elezioni europee del 1994: 1.050.000 voti e il 35,5 %, con 9 deputati). Quanto al PP-CDS, il peggior risultato ottenuto alle europee era stato sino a oggi quello del 1999: 280.000 voti, l’8,4 % e 2 seggi. Spunta un’estrema destra frammentata Naturalmente, il Portogallo, per quanto “eccezione” nel panorama europeo, non poteva essere del tutto al riparo rispetto ai venti d’estrema destra che soffiano sul continente. E qualche folata vi è in effetti arrivata. Se nel 2014 monarchici, teocon e fascisti del PNR non andavano sommati tra di loro oltre i 45.000 voti (1,5 %), oggi con l’aggiunta dell’Aliança, sono quasi a 130.000 (4,1 %), divisi però in tre tronconi: Aliança 2,0 %, Basta! 1,6 % e PNR stabile allo 0,5%. Nulla di paragonabile a quello che è accaduto quasi ovunque in Europa, nulla di preoccupante, per ora, ma non è il caso di prestare scarsa attenzione a quel che fermenta nei bassifondi di Lisbona o di Porto, perché si rischia, in futuro, di cadere dal pero. Cosa che è capitata, per fare un solo esempio, a chi in Spagna non ha letteralmente “visto” arrivare Vox, liquidato con un’alzata di spalle come un partitino dallo zero e qualcosa per cento. Alcune conclusioni provvisorie L’eccezione portoghese non ha un’unica spiegazione. Senza entrare troppo nei dettagli, e un po’ alla rinfusa, possiamo provare ad elencare alcuni ingredienti che concorrono a formarla: una situazione sociale ed economica contraddistinta da precarietà e fragilità, cui però il governo socialista, con l’appoggio esterno di Bloco, CDU e spesso anche del PAN, è riuscito a mettere almeno alcune toppe, alimentando la speranza in molti strati sociali di progressivi miglioramenti (solo il futuro ci dirà quanto queste speranze siano fondate); l’assenza di significative tensioni sociali legate all’immigrazione (ciò che ha reso impossibile a chiunque una retorica di tipo salviniano) e la presenza invece di una certa preoccupazione ambientale (sollecitata tra l’altro dai devastanti incendi degli anni scorsi, e nelle grandi città dalle devastazioni causate dal turismo d’assalto); le oscillazioni nella linea politica dei due principali partiti di destra, volta a volta tentati dalla radicalizzazione dello scontro con i socialisti o dalla riproposizione di progetti di alleanza di tipo centrista; l’assenza di un forte partito d’estrema destra. Alcuni di questi ingredienti possono però modificarsi, anche nei prossimi mesi, in vista delle elezioni di ottobre. Per esempio, non si può escludere che la CDU, di fronte alla pesante sconfitta subita, decida che l’unica spiegazione che può darsi di quanto è successo consista nel suo appoggio esterno al governo, e decida di negarglielo d’ora in poi. Con tutte le conseguenze del caso. Ancora, non c’è alcuna certezza che i socialisti intendano continuare sulla strada del governo di minoranza appoggiato (e pertanto anche in parte condizionato) dalle sinistre. La natura del PS non è cambiata in questi anni, e la tentazione di riprendere la strada di qualche tempo fa (in chiaro: quella neoliberista) è forte. Tanto più che gli incidenti di percorso si susseguono con una certa regolarità, come per esempio l’ultimo sulla questione dei professori. Al di là di queste sparse considerazioni, quel che preme sottolineare è comunque un fatto. Il Bloco esce bene da queste elezioni, molto bene. I risultati ottenuti non vanno certo sopravvalutati (in ultima analisi, ha superato la crisi del 2014, attestandosi a livelli già raggiunti in passato), ma ha dimostrato soprattutto di essere un partito solido. Certamente, al suo relativo successo hanno contribuito alcune delle specificità della situazione portoghese che non si danno in altri Paesi europei, ma c’è un “di più” che spiega il suo successo, specialmente se paragonato ai disastri di altre liste di sinistra, da Podemos in Spagna a La France insoumise di Mélenchon in Francia, per limitarci a due soli esempi. Quel “di più” consiste nell’aver mantenuto e aggiornato un modello di partito senza cedere alle sirene né del “populismo di sinistra” (con i suoi ristretti comitati elettorali, le sue direzioni verticistiche, il leaderismo portato agli estremi), né del movimentismo venato di millenarismo. Il Bloco ha certo leader capaci e stimati, ma pratica regolarmente la rotazione delle cariche; ha correnti interne, ma le rappresenta negli organi dirigenti in modo proporzionale (e non le emargina, come è accaduto in Podemos); ha settori di intervento, ma riesce a coordinare le varie attività dando loro uno sbocco politico centralizzato. Ha certo anche molte debolezze, la più rilevante delle quali è sicuramente un radicamento sociale ancora insufficiente (lo si vede nelle elezioni municipali). Ma ha anche dimostrato sino a ora di essersi costruito con un grande spirito unitario. Quando è stato fondato vent’anni fa poteva ridursi a un semplice cartello elettorale nel quale erano confluiti i trotskisti del PSR, gli ex maoisti dell’UDP e i comunisti dissidenti di Politica XXI. Le cose sono andate altrimenti, un processo unitario si è messo in moto e ciò che di vivo nelle tre tradizioni c’era è diventato patrimonio comune. I dirigenti delle tre organizzazioni fondatrici hanno saputo rinunciare a parte delle loro identità, per costruire una nuova identità unitaria. Cosa che non è di per sé sufficiente, certo, ma che è disperatamente necessaria. Anche da noi, in Italia.