Non è per fare paragoni impropri, anzi, ma narrano gli storici che Adolf Hitler appena salito al cancellierato venne mitizzato, tra l’altro, con l’aura di colui che avrebbe portato…
Non è per fare paragoni impropri, anzi, ma narrano gli storici che Adolf Hitler appena salito al cancellierato venne mitizzato, tra l’altro, con l’aura di colui che avrebbe portato la nuova Germania in una nuova era dell’industrialismo e quindi, quando dovette tenere un primo grande discorso davanti ai più valenti capitani dell’industria tedesca, dovette tenere conto del mito ulteriore che doveva necessariamente cucirsi addosso.
Così, parlo per un’ora e mezza ad una platea simile a quella di qualunque associazione di rappresentanza padronale, nella residenza privata di Göring, quindi in una tenuta tutt’altro che sobria, adatta pertanto all’occasione. Parlò davanti a quel magnate dell’industria siderurgica che conosciamo bene anche in Italia per la tragedia occorsa ad una delle sue postume aziende collegate alla Krupp: il capo dell’Associazione dell’industria tedesca, Thyssen, sostenitore del nazionasocialismo fin da prima dell’ascesa di Hitler al cancellierato.
Thyssen, temendo che i nazisti volessero intervenire politicamente nell’economia con una serie di misure che avrebbero frenato la crescita e l’accumulazione sempre maggiore dei profitti, s’era preparato un discorso da tenere poco dopo quello di Hitler, ponendo accenti critici tanto sulla riforma agraria che l’NSDAP era intenzionato a mettere in essere quanto sulla visione del dittatore nei rapporti tra politica ed economia per cui, rovesciando la verità scientifica marxiana secondo cui la prima è sovrastruttura e la seconda è invece struttura condizionante il resto della vita materiale (e non solo).
Hitler non intendeva affatto mettere da parte il sistema capitalistico: socialista (nonostante una parte del nome del partito portasse a ritenerlo) non era e non sarebbe mai stato. Pretendeva solamente che fosse lo Stato a dettare le regole all’economia, tutelando ampiamente tutti i privilegi dei capitalisti e il sistema economico stesso.
Un compromesso cui gli industriali tedeschi erano pronti barattando l’intromissione burocratica del Reich nelle loro faccende con la promessa di un potenziamento della produzione e un aumento della ricchezza prodotta in un paese, quello della ormai defunta Repubblica di Weimar, depresso e inflazionato all’ennesima potenza dopo lo schianto contro la situazione debitoria lasciata dalla Prima guerra mondiale.
Così avvenne che, non potendo o non volendo parlare contro le tesi del nuovo cancelliere, Thyssen si convinse anche a trasformare la confidustria tedesca in una sorta di associazione paranazista chiamata “Ordine degli industriali tedeschi”. Il potente presidente della Reichsbank Hjalmar Schacht il giorno del discorso di Hitler batté cassa e tirò su per il partito nazista un finanziamento di ben tre milioni di marchi.
Fu così che gli industriali tedeschi iniziarono a sostenere attivamente il nazismo e fu così che quasi ogni critica e stigmatizzazione delle mire politiche di Hitler sparì dai discorsi scritti e dagli incontri nei buoni salotti della Berlino di Hindenburg malato e quasi morente.
Del resto Hitler di economia capiva poco o niente non avendola praticamente mai studiata e considerandola una “appendice” della questione delle questioni, ossia il consolidamento del “nuovo ordine nazista”, ergo il rafforzamento del potere statale prima di ogni altra cosa, ma grazie a Göring, Schacht e Todt riuscì persino ad avere una intuizione: vedere nell’automobile il futuro delle comunicazioni e dei trasporti, prendendo a prestito l’idea tutta americana delle grandi autostrade che si stavano costruendo e insistendo per un piano simile anche in Germania.
Venendo all’oggi, all’Italia, tutto questo lungo ritratto della Germania di inizio epoca nazista mi è servito forse per provare a dissimulare una convinzione che un tempo avevo e che oggi inizia a tentennare: quella per cui, in fondo, la democrazia fosse un terreno di tenuta interclassista, di pace sosciale tale da muovere i padroni a difenderla, ad impedire che arrivasse l’”uomo solo al comando”.
Forse non era nemmeno necessario scomodare Hitler per capire che l’economia raramente riesce a sopportare il dominio della politica su sé medesima, proprio per la natura stessa del sistema capitalistico. Ma anche perché se l’uomo solo al comando ti garantisce più privilegi e profitti di quanti non te ne garantisca il sistema democratico, pochi scrupoli si fa la cosiddetta “classe dirigente” del Paese a mutar pelle, a cambiare opinione, ad abbracciare il “nuovo che avanza” e, addirittura, ad entrare in una apparente sintonia con le classi che sfrutta, con quei proletari di antica e di nuova memoria che sono, proprio in queste fasi della storia e dell’attualità, privi di una coscienza di classe.
Bastava guardare al fascismo tutto italiano, alla conversione di Mussolini dal primo programma “sociale” del PNF al sostegno che anche questi ebbe dai grandi gruppi industriali dello Stivale: proprio come accadde nella Germania che transitava dalla traballante democrazia di Weimar alle “certezze” che gli veniva garantendo il regime totalitario di Hitler.
Davanti all’impetuosa avanzata dei sovranismi di oggi non c’è argine, dicevamo ieri, che tenga: argine politico, di sinistra, antifascista, antiliberista. Troppo deboli sono le formazioni che potrebbero costruire questo fronte e finirebbero col diventare ancora una volta una armata Brancaleone priva di finalità comuni, unita solo dalla disperazione per l’allargarsi di un consenso nei confronti delle destre estreme che mai si era registrato nella storia della Repubblica.
Allora, mi sono detto, confidiamo nell’”alto” senso democratico dei padroni: svolgono il loro ruolo di classe, ma almeno saranno pronti a proteggere forze liberiste e liberaleggianti come quelle che Calenda e Zingaretti vogliono costruire allargandosi al centro, prendendo da un lato ciò che resta delle sinistre moderate e dall’altro nuovi settori per l’appunto vicini al liberalismo.
In Europa, del resto, si ipotizzano maggioranze nell’Europarlamento che vanno dal gruppo dell’ALDE fino a quello dei Verdi passando per una parte di popolari e per i socialisti e democratici.
Poi ho riletto la storia del Novecento, di quel “secolo breve” così intriso di tanti accadimenti terribili e globali, e ho capito che non c’è da fare affidamento su nessun padrone per veder difesa la democrazia ma soltanto sui lavotatori, sui ceti popolari più disagiati, proprio su quelli che oggi sostengono a pieni voti Salvini.
Solo loro possono tornare a capire quanto importante sia la lotta per la ricomposizione dei valori solidali, di classe, per un rinnovamento democratico della Repubblica, per una Europa che se lasciata in mano a questi speculatori e banchieri ci porterà non oggi ma certamente tra non molto direttamente nella braccia di un nuovo autoritarismo.
Il punto è sempre lo stesso: come rompere l’incantesimo delle destre fatto agli sfruttati del nuovo millennio. Non c’è una ricetta pronta, un viatico certo da seguire. C’è da mettersi al lavoro, anzi da rimettersi al lavoro per mantenere vivi non solo gli ideali ma le proposte concrete di sostegno sociale che le destre non saranno in grado di mantenere.
Quando Salvini e i suoi alleati falliranno, la sostituzione politica e sociale da mettere in campo non potrà essere lo schema liberal-liberista di Calenda e Zingaretti. Dovrà essere quello invece di una sinistra autonoma, anticapitalista che deve poter essere tale e che non può essere abbandonata, come prospettiva e come progetto, subito dopo un risultato elettorale più che negativo.
Costruire questa sinistra vuol dire escludere ogni contaminazione oggi con “nuovi schemi” frontisti che non batterebbero Salvini ma che, al contrario, dichiarerebbero ancora una volta che il ruolo da “utile idiota” la sinistra comunista, socialista e antiliberista ha deciso di interpretarlo nuovamente a soggetto, senza nemmeno un canovaccio, un copione da seguire. Sempre e solo per propria disperazione.
MARCO SFERINI