La Libia non è un porto sicuro. Questo il messaggio dei capimissioni di Medici Senza Frontiere che, di ritorno da Tripoli, hanno raccontato alla stampa la realtà dei centri di detenzione in cui vengono reclusi i migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo. Dalla sede della Ong a Roma, gli attivisti hanno parlato delle condizioni di violenza e precarietà che regnano nei centri, peggiorate dal conflitto che continua ormai da due mesi.
Sono intervenuti oggi a Roma due capimissione di Medici Senza Frontiere, per raccontare la realtà nei campi di detenzione in Libia a due mesi dallo scoppio del conflitto. Uno scontro, quello fra il Governo di Accordo Nazionale del presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite, e le truppe del generale Khalifa Belqasim Haftar, che non sembra destinato a raggiungere una conclusione in tempi brevi, come sottolinea anche Sam Turner, capomissione MSF per il Paese, di ritorno da Tripoli. I combattimenti, prosegue Turner, hanno già provocato 90mila sfollati e oltre 3800 vittime, fra cui moltissimi civili, e continuano ad avere un serio impatto sulla popolazione. La guerra ha ormai raggiunto molte zone del Paese, bloccando i civili al centro delle violenze. L’organizzazione opera da anni in Libia, dove ha costruito dei centri di ricovero e protezione per gli sfollati in cui si distribuisce cibo e assistenza medica, ma il propagarsi del conflitto rende più difficili le operazioni umanitarie.
I centri di detenzione per richiedenti asilo
La situazione si complica ulteriormente per i profughi e i richiedenti asilo, una parte di popolazione già di per sé vulnerabile. I migranti dispongono di un accesso fortemente limitato a qualsiasi tipo di servizio, e il conflitto li rende ancora più esposti a violazioni dei propri diritti e a maltrattamenti. La Ong ha più volte denunciato come queste persone finiscano spesso in centri di detenzione, recluse in modo arbitrario e a tempo indefinito. Queste strutture non sono fatte per ospitare esseri umani, segnala Turner. Inoltre, i centri di detenzione possono diventare obiettivo di attacchi da parte delle milizie. Lo scorso aprile, il centro di Qasr bin Ghashir, in prossimità di Tripoli, è finito sotto gli spari di gruppi armati: un incidente in cui almeno 14 persone sono rimaste ferite.
Non si tratta dell’unico centro che rischia costantemente di essere colpito dai bombardamenti: non solo ciò comporta un grave rischio per l’incolumità fisica dei migranti, ma ha risvolti estremamente negativi anche per la salute mentale di queste persone. Turner racconta di un gruppo di donne segregate nel centro di detenzione di Tajoura, a una dozzina di chilometri dalla capitale: si trovavano rinchiuse da giorni in una cella totalmente buia, senza sapere a che cosa sarebbero andate incontro, quando si è verificato un attacco aereo a pochi metri dal luogo in cui si trovavano: “Erano terrorizzate, temevano per la propria vita. Regnava la disperazione e la consapevolezza di essere circondate dalla guerra”, spiega l’attivista. Nelle ultime settimane, specialmente a Tripoli, sono migliaia le persone che cercano di fuggire in altre aree della città, meno soggette alle offensive, ma per i migranti bloccati nei centri di detenzione non c’è possibilità di fuga.
Credits: Medici Senza Frontiere
Anche Julien Raickman, capomissione nei centri di Khoms e Misurata, racconta di come i migranti “rimangono lì intrappolati senza prospettive di risolvere la loro situazione”. Malattie, meno di un metro quadrato a disposizione per persona, assenza di acqua e cibo, finestre murate per evitare fughe: questo è il quadro riportato. Secondo il capomissione francese, sarebbero inoltre numerosissimi i minori non accompagnati che si trovano ora reclusi, così come sono molte sono anche le madri che partoriscono all’interno dei centri e che subiscono violenze sessuali. Tali centri, prosegue, “sono luoghi di morte anche quando non si trovano così vicini al fronte di combattimento”.
Queste strutture non possono in alcun modo essere considerate una soluzione, afferma Raickman. Allo stesso modo, non può esserlo la fuga via mare: “Non abbiamo modo di sapere quante persone stiano morendo ora nel Mediterraneo”, continua alludendo all’assenza di monitoraggio da parte delle Ong e aggiungendo che “alcune navi commerciali ignorano la presenza di imbarcazioni in difficoltà, mentre altre riportano direttamente i migranti in Libia”. Posizione rafforzata anche da Turner: “In Libia al momento ci sono tra i 500 mila e i 700 mila migranti, ma nei centri di detenzione sono rinchiuse circa 5.500 persone. Dal dato si può già capire che questi luoghi non possono essere la risposta all’immigrazione irregolare in Libia: la maggioranza dei migranti e rifugiati nel Paese, infatti, non si trova nei centri di detenzione”.
Credits: Medici Senza Frontiere
“Non ci sono luoghi sicuri in Libia”, continua poi Turner. “Siamo di fronte ad un’emergenza ed è per questo che chiediamo che vengano istituiti dei corridoi umani affinché queste persone possano essere evacuate”, sottolinea l’attivista, per cui gli sforzi fatti negli ultimi mesi, per fornire una via d’uscita dal Paese sicura, non sono abbastanza: “Migliaia di migranti che cercavano di fuggire sono stati nel frattempo riportati in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli”.
La necessità di creare corridoi umanitari
La Libia non può quindi essere considerata un porto sicuro: questo il messaggio finale dei capimissione, per cui le loro testimonianze “contraddicono quanto sostenuto dalle autorità europee e italiane, che collaborano con la Guardia costiera libica”. Turner e Raickman sottolineano anche come qualsiasi strategia di evacuazione, a cui lavora in primis l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sia poi resa vana dalle operazioni dei militari di Tripoli nel Mediterraneo: “I centri di detenzione in cui vengono riportare queste persone sono un sistema di reclusione illegale, che dovrebbe essere smantellato e contrastato dalle autorità internazionali”. I corridoi umanitari esistenti, estremamente marginali rispetto alle reali necessità, vengono poi “totalmente nullificati dalle altre iniziative dei governi europei”, aggiunge Marco Bertotto, il responsabile advocacy MSF in Italia, riferendosi “in primis al supporto alla Guardia costiera libica, per cui per ogni persona evacuata ce ne sono quattro che vengono riportate nei centri di detenzione”.
Credits: Medici Senza Frontiere
“Non entriamo nel merito di un dibattito politico che ormai ha assunto un tono di stampo elettorale o propagandistico”, continua Bertotto: “Quello che è certo è che la Libia non è un porto sicuro. Noi oggi l’abbiamo provato raccontando semplicemente la testimonianza dei nostri operatori che ci dicono che cosa è oggi la Libia e cosa sono i centri di detenzione in cui queste persone vengono recluse. Ogni dichiarazione sulla riduzione delle morti in mare e sul tentativi di dare sostegno alle legittime autorità di Tripoli perde qualsiasi senso se andiamo a vedere nei fatti cosa sta succedendo. E sta succedendo questo: le azioni politiche dell’Italia e degli altri Paesi europei intercettano le persone in mare e le riportano nei centri di detenzione”