Nel 2019, la crescita mondiale è prevista ridursi al valore più basso dall’inizio della Grande depressione, le cui cause rimangono latenti. Nell’Eurozona le cose continuano ad andare peggio: è in corso un progressivo rallentamento della crescita che interessa anche la Germania dove la previsione di aumento del Pil si è dimezzata dall’1% allo 0,5% (valore prossimo a quello sostanzialmente stagnazionista dell’Italia). La natura strutturale di queste problematiche, aggravate dalle incertezze geopolitiche e dalle spinte protezionistiche, ancor più dovrebbe spingere i paesi europei ad un approccio di politica economica più unitario ed efficace rispetto a quello finora praticato dai rappresentanti dell’Unione. Invece, la costruzione europea tende a complicarsi. La Brexit indica che tornare indietro comporta molte difficoltà e costi imprevisti. Ulteriori rotture nella costruzione europea non sarebbero facilmente gestibili in modo ordinato e indolore, eppure questi esiti preoccupanti sono resi più probabili dal perseverare delle politiche controproducenti che alimentano la disaffezione verso il progetto europeo e i nazionalismi risorgenti. Anche se nelle scelte degli operatori privati e nelle politiche praticate nel nostro paese continua ad essere assai scarsa l’attenzione per le cause strutturali del suo declino (rimando al Rapporto sullo stato sociale 2019), l’avvio da parte della Commissione dell’iter che potrebbe portare alla procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per debito eccessivo è un esempio della riproposizione burocratico-amministrativa di una visione deleteria. Come nota Beda Romano, che ha intervistato per Il Sole 24 ore il commissario europeo Moscovici: «In filigrana, la Commissione fa capire che senza una riduzione del debito la crescita è destinata a rimanere terribilmente flebile». Dunque, nonostante sia stato smentito dal dibattito teorico e dall’esperienza concreta, si continua a sostenere l’ossimoro della «Austerità espansiva» (da ultimo ripresentato sotto la forma ribaltata della «Espansione restrittiva»). Questa è la rappresentazione delle relazioni economiche che ancora tende ad essere trasmessa all’opinione pubblica la quale, però, è sempre più insofferente verso i risultati delle sue ricette. Non è una novità. Negli anni ’30, la disoccupazione negli Stati Uniti raggiunse il 25%, ma la teoria economica liberista allora dominante non era nemmeno in grado di spiegare la possibilità che ci fosse. Per questa spiegazione (pure presente nelle analisi di autori precedenti come Malthus e Marx) si dovette aspettare la «rivoluzione keynesiana» che, come segnalava l’autore, non era facile da accettare: La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente. Da quella avvertenza sono passati 85 anni, durante i quali non solo le idee nuove ma anche le vicende reali hanno mostrato ripetutamente la fallacia delle idee vecchie; le quali, tuttavia, ammantandosi di presunte novità (come segnalò Federico Caffè già una quarantina di anni fa) hanno ripreso il sopravvento; e nonostante abbiano favorito la nuova Grande crisi del 2008, continuano a prevalere, specialmente nelle indicazioni della Commissione europea ai paesi dell’ Unione (ma non proprio sempre e a tutti!). Il punto è che se, ad esempio, una persona sostiene che due più due fa quattro e altre novantanove affermano che quella somma fa tre, naturalmente questi ultimi hanno torto marcio e il primo ha ragione da vendere, ma non può ignorare di essere in stretta minoranza; e per affermare la verità a poco serve «battere i pugni sul tavolo». Forse per chiarire la situazione può aiutare ricordare le parole della famosa favola di Christian Andersen: Una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all’altezza della loro carica e a quelli molto stupidi. Cosicché, nessuno volendo passare per stupido o incapace, a cominciare dal re che amava i bei vestiti, quando questi andò in corteo indossando quelli inesistenti spacciati dai truffatori convincenti, tutti dissero che erano bellissimi; finché un bambino – nella cui mente non erano ancora ramificate le idee vecchie, ammantate o meno di novità – fece notare: «Ma non ha niente addosso!» Solo allora tutti realizzarono che il re era nudo. Dopo la crisi del ’29, che «il re era nudo» (i limiti del sistema economico e della teoria che non li vede) le popolazioni lo avvertirono subito sulla propria pelle. Poi lo capì anche la politica, ma proponendo soluzioni anche radicalmente diverse (Roosevelt avviò il New Deal, Mussolini e Hitler instaurarono fascismo e nazismo). Dunque il primo passo è capire e ammettere che«“il re è nudo» e chi prima lo fa (o almeno ne dà l’impressione), prima può raccogliere il consenso per affrontare – a proprio modo, che può fare tutta la differenza tra il bene e il male – il problema avvertito dalle popolazioni.