Centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza in tutta la Svizzera lo scorso 14 giugno per chiedere una piena parità di diritti rispetto agli uomini. Le immagini che arrivano dalle diverse citta’ e che rimbalzano sui media internazionali raccontano un’onda viola – questo il colore scelto dalle manifestanti – con marce e giganteschi raduni nei centro. “Nel 2019 – ha detto a Swissinfo una delle organizzatrici, Clara Almeida Lozar – stiamo ancora cercando l’uguaglianza. La cultura del sessismo fa parte della vita quotidiana in Svizzera, e’ invisibile e ci siamo cosi’ abituati che non ci accorgiamo nemmeno che c’e’”. “Esigiamo rispetto per il nostro lavoro e pari opportunità; tolleranza zero contro il sessismo e le molestie nei confronti delle donne; stop alla violenza sulle donne”, si legge nelle motivazioni dello sciopero esposte dal sindacato elvetico Unia. “La discriminazione salariale aumenta, invece di diminuire una volta per tutte – prosegue il sindacato -. Le ultime cifre pubblicate dalla Confederazione per il mese di gennaio 2019 indicano un aumento della differenza salariale non spiegabile attraverso il grado di formazione o di responsabilità (disparità salariale discriminatoria). Più donne lavorano in un ramo professionale, più bassi sono i salari. Nei cosiddetti rami femminili, come le cure e l’assistenza, il mestiere di parrucchiere o il commercio al dettaglio, i salari sono generalmente bassi e non bastano, o bastano a malapena, per vivere”. A salari bassi corrispondono pensioni basse: “Spesso – prosegue Unia – le donne lavorano a tempo parziale con frequenti interruzioni della carriera professionale a causa degli obblighi familiari. A questo si aggiunge un salario il più delle volte inferiore a quello degli uomini. Una simile situazione si ripercuote negativamente sulle loro pensioni, per cui la discriminazione prosegue anche nella vecchiaia”. “L’assenza di asili nido o il loro costo eccessivo – prosegue il sindacato -, la durata e la rigidità dei tempi di lavoro nonché l’impossibilità di lavorare a tempo parziale mettono a dura prova le famiglie”. Inoltre, “invece di introdurre modelli di orari di lavoro che favoriscano la conciliazione tra lavoro e famiglia migliorando così le prospettive di carriera delle donne, le aziende preferiscono affidare gli impieghi dirigenziali agli uomini”. Infine “per molte donne il lavoro a turni, su chiamata o con un grado di occupazione estremamente limitato per un salario orario irrisorio è una realtà. Situazioni simili pesano sulla famiglia, ostacolano la conciliazione tra vita familiare e professionale e nuocciono alla salute”, conclude l’Unia. La protesta odierna arriva 28 anni dopo un’analoga iniziativa che vide 500 mila donne scendere in piazza, nel 1991. Le donne in Svizzera promuovono da tempo una campagna per accelerare il passo della parità di genere. Si sono unite a milioni di altre donne in Europa dopo la conclusione della Prima guerra mondiale nel 1918 per chiedere il diritto di voto, che riuscirono però a ottenere solo nel 1971. Ai tempi dello sciopero del 1991 non c’erano donne nel governo elvetico e legalmente non era previsto il congedo di maternità. Da allora alcune cose sono cambiate: ci sono state otto ministri donna nell’esecutivo e il diritto al congedo di maternità è sancito ora per legge. Le donne però guadagnano ancora, in media, il 20 per cento in meno degli uomini, sono sotto-rappresentate nelle posizioni apicali e l’assistenza per l’infanzia resta non solo costosa, ma anche scarsamente disponibile.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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