Razzismo, Brexit, gilet gialli, disintermediazione della politica, disagio sociale e identità di classe: il Cantiere delle idee ha condotto ricerche nelle periferie di 4 città italiane (Milano, Firenze, Roma, Cosenza). Questa è la prefazione del rapporto. Attraverso 60 interviste in profondità condotte fra ottobre 2017 e ottobre 2018 nelle periferie di quattro città italiane (Milano, Firenze, Roma e Cosenza), un gruppo di ricerca composto da accademici e accademiche, attivisti e attiviste – “Il Cantiere delle idee” – ha cercato di portare alla luce tre grandi questioni: le condizioni sociali dei quartieri popolari, il rapporto delle persone intervistate con la politica (sia quella istituzionale sia la partecipazione dal basso), e il rapporto con i media e l’informazione. La ricerca ha voluto in primo luogo chiedere alle cosiddette «classi popolari», di cui spesso politici e partiti pretendono di essere portavoce, di prendere parola sulle esigenze, speranze e difficoltà della loro vita quotidiana. In secondo luogo si è cercato di capire quali rappresentazioni diffuse ci siano della politica e delle classi dirigenti. Ciò che è emerso traccia uno scenario molto più complesso di quello dipinto nelle narrazioni mainstream, difficilmente riconducibile alle etichette di «populismo», «razzismo» o «euroscetticismo» e che ci costringe a ripensare le categorie analitiche con le quali interpretiamo i fenomeni contemporanei. Di seguito riportiamo la prima parte della prefazione scritta da Nadia Urbinati, docente di teoria politica alla Columbia University: Questo libro, utilissimo, intelligente, ben scritto, nasce da un proposito molto semplice: mettere in discussione l’idea che alle classi popolari vada addossata la responsabilità principale del successo delle destre populiste. «Perché ha vinto Trump? Perché ‘la classe operaia’ (per una volta esistente, nelle analisi giornalistiche) ha scelto lui. Perché ha vinto la Brexit? Perché le classi popolari si sono rivoltate alla propria classe dirigente e sono nazionaliste e razziste. Perché Lega e Movimento 5 Stelle sono arrivati ad avere il 60% dei consensi? Perché i partiti tradizionali, e quelli di sinistra in particolare, non si sono occupati del ‘disagio’ (per usare un termine di moda tra le élite) delle classi popolari. Ma soprattutto, dove si diffondono il sentimento di insicurezza e l’ostilità all’immigrazione, e quindi le basi del consenso per i partiti di estrema destra? Tra le classi popolari e nelle periferie, naturalmente». La lotta dei gilet gialli nella Francia di Macron ripropone più o meno lo stesso problema. Intervistato da un giornalista, un cittadino francese mobilitato con i gilet gialli ha in poche parole offerto una spiegazione eloquente della relazione tra «classi popolari» e politica nelle nostre democrazie consolidate: «Abbiamo dovuto scegliere la strada della rivolta per farci sentire. Sono mesi, anni che cerchiamo di far capire le nostre esigenze, le nostre frustrazioni, di trasmettere le nostre preoccupazioni sul potere di acquisto, ma nessuno ci ascolta». Questo libro vuole sondare e raccontare la storia della scollatura tra il popolo (soprattutto le classi socio-economiche meno forti) e le istituzioni politiche, il divorzio tra partecipazione e decisione. La partecipazione è sempre stata un concetto vago quando non riferito alla partecipazione elettorale. Ma benché sfugga alla misurazione quantitativa e alla «certificazione», la partecipazione extraistituzionale ha un peso rilevante, soprattutto nelle democrazie rappresentative, per l’ovvia ragione che qui i giudizi politici non si traducono immediatamente in decisioni ma passano attraverso la mediazione di attori organizzati, i partiti. Nelle democrazie elettorali, dovrebbero essere questi ultimi a dare voce alla partecipazione dei singoli, a stabilire legami tra esigenze e bisogni diversi, a tradurre le rimostranze sociali in proposte politiche attuabili. La circolazione della corrente di giudizi politici tra dentro e fuori delle istituzioni dà alla partecipazione un significato importante, quindi, e non aleatorio. Ce ne accorgiamo quando questa comunicazione si interrompe, quando per «farsi sentire» i cittadini devono scegliere strade radicali e, soprattutto, fare da sé. Quando ciò succede, come oggi, opinionisti, studiosi, intellettuali iniziano ad accorgersi che qualcosa non funziona più; e mettono in circolo l’idea di una «crisi della democrazia», l’ansia per il plebeismo e l’irrazionalità che sgorga dalla «pancia del paese». L’assunto non detto di questi esercizi di catastrofismo è che il termometro della democrazia sia l’apatia – le contestazioni segnalerebbero una «sofferenza» della democrazia. La nostalgia per i «gloriosi trenta» si alimenta, in questo caso, di un sentimento di paura delle classi dirigenti – delle élite – per quel che a loro sfugge. In questa cornice, la diagnosi del declino dei «corpi intermedi» rinvia a una concezione aristocratica della rappresentanza politica, che sembra dover svolgere una funzione sedativa e sostitutiva. Le interviste di questo ottimo lavoro di narrativa e rilevazione delle opinioni e dei sentimenti che nascono dalle «classi popolari» ci suggeriscono una lettura diversa: il bisogno, quando non la necessità, di stabilire e coltivare un rapporto di comunicazione tra partecipazione e rappresentanza, tra dentro e fuori delle istituzioni. E ci offre uno spaccato sociale di quel che è l’esito di un percorso che da una cittadinanza integrata è progressivamente andato verso la segregazione delle sue parti. La «voce» delle classi popolari diventa incomprensibile da fuori quando la mescolanza della cittadinanza – quell’essere un corpo di liberi e uguali – si incrina e l’unità grammaticale del linguaggio politico è rotta. Karl Marx aveva criticato questa illusione roussoviana di una libertà politica che pretende di essere inclusiva di tutti senza imporre un’identità di classe. Eppure, l’utopia pragmatica della democrazia consiste proprio nel tenere aperto il gioco del potere politico, affinché nessuno venga escluso ex ante o alla fine di un processo che penalizza alcuni e favorisce altri, per ragioni esterne all’identità politica di cittadinanza. La condizione di frattura tra le parti sociali è molto grave dunque, soprattutto quando è accompagnata, come questo libro mostra molto bene, da una sedimentazione culturale, di stili di vita, di lingua e di un immaginario che rendono le «classi popolari» (e quelle non popolari) riconoscibili a occhio nudo. A questo punto si manifestano due popoli che non solo non si conoscono, ma si temono e diffidano l’uno dell’altro. La condizione della società democratica che ci consegna il volume è questa. Le interviste si concentrano sulle «classi popolari» ma ci parlano per default anche dell’altra parte. Infatti, nelle domande proposte trapela e si riflette l’opinione corrente di coloro che classe popolare non sono. Il libro vuole quasi testare questa opinione corrente che ci parla di razzismo diffuso nelle periferie, di rabbia di chi rischia la povertà o è povero nei confronti di chi è benestante. E poiché la classe e l’interpretazione classista non è più in grado di rivestire le emozioni e tradurle in proposte, tutto quel che avviene «là sotto» acquista un significato sinistro. Il paradosso è che proprio coloro che dovrebbero ispirare una progettualità di emancipazione – le classi popolari – vengono declassate a sottoproletariato rabbioso, facile a cadere nella rete dei retori fascisti e razzisti. Giunti a questo punto, le richieste di attenzione per la partecipazione destano sospetto. Si apprende da queste interviste che il cortocircuito tra classi popolari e politica, tra partecipazione e rappresentanza, è anche l’esito dell’assenza nei quartieri popolari dei partiti organizzati, anche a causa della trasformazione dei partiti di massa da strumenti di partecipazione e formazione dal basso del personale politico a strumenti leggeri nelle mani di ristretti gruppi o di un leader personale. Nascono a questo punto forme varie di partecipazione, fuori e anche contro questi partiti, fino ad arrivare a quello che è il caso più dirompente del nostro tempo: appunto i gilet gialli, una reazione che dimostra, da un lato, la potenzialità organizzativa immediata o del «fai-da-te» (via i-phone; ma lo si era già sperimentato con la cosiddetta «primavera araba») e, dall’altro, la disgregazione della rappresentanza partitica con effetti diretti di debolezza istituzionale – quando il presidente francese Macron ha cercato una rappresentanza del movimento con la quale trattare non sapeva a chi rivolgersi e ha scelto la via della decisione unilaterale, come del resto già faceva abbondantemente. Tutte le azioni del governo, da quelle più blande a quelle più autoritarie, sono state messe in campo dall’esecutivo francese dall’alto verso il basso, anche perché il basso non si esprimeva attraverso una rappresentanza riconosciuta. Assistiamo quindi a una forma di orizzontalismo della rappresentanza immediata, che però non genera per ora né una rappresentanza più democratica o responsiva ai cittadini né più partecipazione effettiva da parte dei cittadini. Il legame tra rappresentanza e partecipazione che la democrazia dei partiti era riuscita a costruire è da ricostruire. I vecchi partiti sono finiti; ma la forma partito non lo è. Forme nuove di aggregazione politica sono in formazione e sono necessarie. I partiti, quale che ne sia il modello, sono essenziali, sia per conoscere e diffondere la conoscenza della società e delle sue parti, sia per dare alla partecipazione un legame effettivo con la dimensione della decisione politica. Per questo, il sapere come vivono i cittadini che sono genericamente messi nella categoria «classi popolari», come votano, come giudicano le loro condizioni di vita, e quali sono le loro ansie e le loro aspirazioni è come riandare ai fondamenti, all’abc della politica.