Sette miliardi e mezzo. È quanto il governo giallo-verde ha messo sul piatto per scongiurare la procedura di infrazione. Di fronte al rischio di una multa miliardaria (fino allo 0,5% del Pil), del blocco dei fondi strutturali e dell’esclusione dai programmi d’acquisto della Bce, ha scelto di venire a miti consigli con la Commissione, impegnandosi a tagliare di quattro decimali il deficit previsto per l’anno in corso nel Documento di economia e Finanza. Per pudore non la chiamano «manovra correttiva», ma di questo si tratta. La correzione dei conti non è avvenuta con un provvedimento ad hoc, ma è stata sussunta nel disegno di legge di assestamento, adempimento ordinario nel ciclo di bilancio dello Stato. Con apposito decreto, invece, sono stati «congelati» i risparmi di Reddito di Cittadinanza e Quota 100, con implicazioni sulla rimodulazione della spesa per gli anni a venire. Parliamo di maggiori entrate, fiscali e non fiscali, per 6,2 miliardi (fatturazione elettronica, dividendi di partecipate e Cassa Depositi e Prestiti) e di minori spese per un miliardo, compensate da un aumento di alcuni capitoli per un importo quasi equivalente. Confermato il blocco di 2 miliardi di spese per tutti i ministeri, per come previsto nella scorsa legge di bilancio. Probabilmente, questa manovra sposterà al prossimo autunno la partita tra Commissione e governo, quando con la nuova legge di bilancio bisognerà dare conto di «misure strutturali» per tenere i conti pubblici nei parametri fissati dalle vigenti regole europee.
Due terribili incombenze: sterilizzare le clausole di salvaguardia su Iva e accise e, nello stesso tempo, rispettare la tabella di marcia della riduzione del deficit, fino al pareggio di bilancio. Al netto di una eventuale riduzione delle tasse (flat tax), serviranno quasi 50 miliardi, visto l’andamento dell’economia e parametri che hanno confezionato per noi a Bruxelles. Tutto ruota intorno all’«output gap», la distanza tra Pil reale e Pil potenziale, da cui dipende anche la quantificazione del «saldo strutturale» di bilancio, calcolato al netto delle misure una tantum e degli effetti del ciclo economico: un calcolo del deficit per uno stato immaginario dell’economia. Per l’Italia, la Commissione stima per il 2020 un Pil potenziale (condizione di ottimale impiego di capitale e lavoro) inferiore a quello reale (altro il calcolo Ocse, ognuno calcola a modo suo). Significa che l’Italia, nonostante sia in stagnazione e registri un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa, per Bruxelles sarebbe addirittura al di sopra del suo potenziale produttivo e dovrebbe rallentare. Oppure, rimediare con «riforme strutturali»: altra flessibilità, precarietà, meno tutele per i lavoratori. Inimmaginabile, in questo contesto, una politica di bilancio espansiva per creare nuovi posti di lavoro e restringere la forbice sociale: creerebbe inflazione, quindi instabilità. Più austerità, allora. Nonostante l’indice dei prezzi al consumo continui a segnalare un problema di domanda (a giugno +0,8% su base annua, solo +0,3% il «carrello della spesa») e i disoccupati, quelli censiti, siano più di 2 milioni e mezzo (altrettanti quelli che un lavoro nemmeno lo cercano).
Follia. Ma il ministro Tria, nella lettera inviata alla Commissione lo scorso 31 maggio, si è limitato a chiedere «valori più coerenti di output gap», ma «comunque calcolati secondo la metodologia convenuta a livello europeo». Non solo. Si è dichiarato concorde «circa la necessità di conseguire avanzi primari più elevati», che significa allargare ancora di più la forbice tra quanto i cittadini versano allo Stato con le imposte e quanto lo Stato delle stesse restituisce ai cittadini sotto forma di spesa pubblica. Ma è chiaro: l’esecutivo giallo-verde ha avviato una «divisione del lavoro» al proprio interno, tra un’ala urlante incapace di proposte alternative, al netto di trovate estemporanee, come i minibot, smentite e derise nello stesso governo, e un’ala dialogante, sostanzialmente supina ai diktat della Commissione. Un gioco delle parti. Perché né l’una né l’altra parte intende andare al cuore del problema: l’incongruenza tra obiettivi «nobili» dell’Ue (solo declamati) e l’insieme delle regole e degli strumenti posti a base del suo funzionamento.