Caso Cucchi, rinvio a giudizio per otto tra ufficiali e militari dei Carabinieri. Uno di loro tira in ballo il comandante provinciale. Il paradosso di Salvini parte civile

Ci sarà un processo per chi depistò le indagini sulla morte di Stefano Cucchi, almeno per otto tra ufficiali e carabinieri che, secondo il pm Musarò, avviarono quella «partita con le carte truccate». Quando inizierà quel processo saranno passati dieci anni dall’arresto, il pestaggio e il calvario di un ragazzo di 28 anni, arrestato per droga e giustiziato dalla malapolizia e dalla malasanità. Per sua sorella Ilaria, volto conosciuto delle battaglie contro gli abusi indivisa «oggi è un momento veramente storico. Dieci anni fa mentre ci battevamo in processi sbagliati non immaginavamo quello che stava avvenendo alle nostre spalle e sulla nostra pelle. Ed è merito del carabiniere Riccardo Casamassima se tutto è cominciato e oggi per quei fatti qualcuno sarà chiamato a riferirne in aula di tribunale».

Il Gup, dunque, ha disposto il rinvio a processo per otto militari dell’Arma, tra cui alti ufficiali, imputati nell’ambito dell’inchiesta sui presunti depistaggi relativi alle cause della morte di Stefano Cucchi. Si apre così un quarto processo che vede alla sbarra la catena di comando dei carabinieri che – secondo le accuse – avrebbe prodotto falsi per sviare le indagini. La prima udienza è fissata per il 12 novembre.

A dover affrontare il processo sarà, tra gli altri, il generale Alessandro Casarsa, attualmente in pensione, ex comandante dei Corazzieri e all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma. Gli altri imputati sono il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma, accusato di omessa denuncia; Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, già comandante della Compagnia Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all’epoca in servizio a Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo e il carabiniere Luca De Cianni.

CASARSA TIRA IN BALLO IL SUO COMANDANTE DI ALLORA

La Procura di Roma aveva chiuso il 20 marzo l’indagine sui depistaggi perimetrando le accuse intorno agli otto ma questo non toglie che l’Arma, fino ai massimi livelli, non potesse essere al corrente che ci fosse del marcio nelle stazioni che furono teatro dell’arresto, del fotosegnalamento, del pestaggio e poi dell’occultamento di Cucchi prima a Regina Coeli  e poi al repartino penitenziario del Pertini dove Cucchi si spense in conseguenza delle botte, secondo l’accusa di un altro processo in corso, quello sul pestaggio e gli abusi immediatamente successivi che vede imputati a vario titolo cinque carabinieri. «Oggi Casarsa ha detto che a riferirgli le cause della morte di Stefano fu il generale Tomasone» ha aggiunto, infatti, Ilaria Cucchi. «Io non ho mai avuto contatti con i magistrati né con i medici legali – ha detto in aula Casarsa rendendo dichiarazioni spontanee ora agli atti del processo – le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009, quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti». Casarsa ha fatto riferimento alle note mediche presenti nella sua relazione del 30 ottobre: un documento sotto l’attenzione degli inquirenti, perché all’epoca anticipava le conclusioni di esperti medici legali che ancora dovevano essere nominati.  Tomasone, all’epoca comandante provinciale dell’Arma, fu il gestore di altre vicende controverse per i carabinieri in quello scorcio di primo decennio: dall’operazione che sbatté in prima pagina un mostro (il presunto mostro della Caffarella, ovviamente straniero) che mostro non era fino alla scoperta di un gruppo di carabinieri che taglieggiavano persone transessuali e volevano ricattare l’allora presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo. Forse per non aggiungere un terzo scandalo, più probabilmente per una radicata subcultura degli abusi in vasti settori di forze dell’ordine e militari, per il malinteso spirito di corpo, per la secolare separatezza dei lavoratori in divisa dal resto della società, nell’Arma passò la linea di chi decise di coprire e depistare col placet di un ministro, La Russa, postfascista ex missino, che emanò un’assoluzione preventiva in diretta tv poche ore dopo la denuncia della morte di Cucchi.

IL PARADOSSO DI SALVINI PARTE CIVILE DOPO LE INGIURIE A ILARIA CUCCHI

Nove anni dopo, in apparenza, l’atteggiamento delle istituzioni sembra differente: sono state ammesse le costituzioni di parte civile di Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Difesa, Ministero dell’Interno, Comando Generale dell’Arma e Cittadinanzattiva Onlus che compariranno come parti lese nel procedimento a carico degli otto militari. Ok alla costituzione di parte lesa anche per i familiari di Cucchi, per il carabiniere Riccardo Casamassima, il militare grazie alle cui dichiarazioni è stato possibile riaprire le indagini sulla morte del geometra 31enne, e per tre agenti della polizia penitenziaria finiti sotto processo proprio per una prima indagine viziata dal cono d’ombra che aveva avvolto l’Arma. «Un depistaggio a 360 gradi – ha detto Musarò nell’udienza del 18 giugno scorso – cominciato il 30 ottobre di dieci anni fa quando, mentre ancora la Procura doveva nominare i medici legali, il Comando gruppo di Roma, all’epoca guidata dall’allora colonnello Alessandro Casarsa, aveva stabilito una sua verità e cioè che Cucchi era morto a causa delle sue condizioni di salute e non per quello che abbiamo scoperto in epoca successive». Il riferimento è anche alle percosse che il 31enne ha subito nella caserma Casilina dopo il suo arresto per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.  Anche se c’è chi pensa che queste mosse istituzionali possano essere un gesto di riconciliazione, sembra paradossale che Salvini e l’Arma, ma anche la Difesa, si costituiscano parte civile, una mossa processuale che ha il sapore di un tentativo di marketing, una sorta di operazione simpatia da parte del comando di Viale Romania, simile alle “scuse” di alcuni capi della polizia che si sono succeduti al Viminale dopo il G8. Allora e adesso sono solo modalità per ricalibrare i titoli dei giornali, per rilanciare il brand in uno dei momenti di minore credibilità. Solo il rigore di alcuni settori della magistratura e l’indignazione di alcuni settori della società che si sono schierate dalla parte della vittima hanno consentito che le denunce degli abusi potessero avere la tribuna di un processo.

Almeno un centinaio tra prefetti, questori e dirigenti della polizia di stato, solo negli ultimi due anni, sono stati condannati, arrestati o indagati per gravi reati (associazione a delinquere, sequestro di persona, violenza – anche sessuale – corruzione, falso, omissione, abuso d’ufficio, depistaggio, rivelazione di notizie riservate, truffa, peculato, connivenza con organizzazioni criminali ecc.) o illeciti erariali; anziché essere rimossi spesso sono stati spalleggiati da sigle sindacali grandi e piccole, promossi o parcheggiati in attesa di rilancio (si pensi ai responsabili delle torture del G8, del sequestro Shalabayeva, del pluriomicidio Calderini, del pestaggio Gugliotta) lanciando un terribile segnale di impunità al personale che, malgrado le promesse dei governi che si sono avvicendati, nemmeno se la passa bene a giudicare dal raddoppio dei suicidi e dal boicottaggio del governo e del Pd delle sacrosante richieste di avere sindacati in grado di funzionare così come detta una sentenza della corte costituzionale.

MALAPOLIZIA E MOBBING

Nel caso Cucchi non si può ignorare che, mentre l’Avvocatura di Stato presenta la richiesta di costituzione di parte civile, l’Arma continua a mobbizzare due dei testi-chiave, l’appuntato Casamassima e la sua compagna e collega Maria Rosati, la ministra Trenta continua a ignorare le richieste di verità e giustizia dei militari ammalati per via dell’uranio impoverito, e il ministro Salvini ha spedito la digos e la celere di mezza Italia a tappare la bocca a chi esercitava il legittimo diritto di manifestare o anche il solo diritto di cronaca come è capitato a un cronista di Repubblica che è tornato a casa con 4 fratture e un trauma cranico. Salvini è lo stesso che, quando finalmente fu chiaro che i carabinieri c’entravano, eccome, con la morte di Stefano, si permise di dire a Ilaria che si sarebbe dovuta vergognare, che certi suoi post gli facevano schifo! Che credibilità possono avere certe istituzioni o quei personaggi che hanno inventato il reato di solidarietà, che lucrano consensi costruendo un senso comune razzista, abusante, fascistoide e sessista?

Gli abusi in divisa sono il frutto marcio dell’emergenza sicurezza e di una subcultura autoritaria che alberga in ampi settori nelle forze dell’ordine e nei corpi di polizia fin dalle fasi del reclutamento e dell’addestramento. Il rapporto tra cittadini con la divisa e cittadini senza si ricuce solo con sradicando quella cultura dell’abuso, senza se, senza ma, senza complicità. I tre ministeri, tra cui quello guidato dal ministro di polizia, sono le stesse istituzioni che si oppongono a misure come il codice alfanumerico sulle giubbe di chi opera travisato in ordine pubblico (pensate a Genova come sarebbe stato semplice trovare i picchiatori del giornalista), a una vera legge contro la tortura o alla rimozione del segreto di stato. La costituzione dell’Arma e del Viminale come parti lese in questa vicenda lascia perplessa anche Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, che già da alcuni giorni aveva diramato questa nota.

LE POSIZIONI DEGLI 8 SECONDO LE ACCUSE

Casarsa, all’epoca era colonnello e comandava il Gruppo Roma; Cavallo, tenente colonnello, era il suo addetto al comando e Soligo comandava, da maggiore, la compagnia Montesacro da cui dipendeva la stazione Tor Sapienza guidata dal luogotenente Colombo Labriola di cui Di Sano era un sottoposto. I cinque, secondo l’ipotesi, «in concorso attestavano il falso in un’annotazione di servizio sottoscritta da Di Sano», tre giorni dopo la morte di Cucchi in un reparto penitenziario del Pertini. Tutto ciò per minimizzare le condizioni di salute di Stefano che, dopo il pestaggio, era stato parcheggiato a Tor Sapienza in attesa dell’udienza di convalida dell’indomani. Si tratta dell’ormai famosa annotazione ritoccata dopo una prima versione in cui Di Sano aveva dato atto delle precarie condizioni di salute della persona arrestata, «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato dal personale della PMZ a salire le scale». L’intera scala gerarchica, fino al comandante di Gruppo, avrebbero fatto in modo che quella formulazione venisse tramutata in una più tranquillizzante, ma falsa, in cui si leggeva «il Cucchi … riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Non solo viene omesso qualsiasi riferimento alla difficoltà di Cucchi a camminare ma si introduce quello che sarà il cavallo di battaglia delle difese, la magrezza, per dimostrare che Stefano non sarebbe morto per le conseguenze delle percosse ma per la miscela tra condizioni di salute e stile di vita. Vittimizzazione secondaria. L’ex leader del Sap, sindacato che tributò la standing ovation ai quattro agenti che uccisero Federico Aldrovandi ora fa il senatore della Lega di Salvini e si sta impegnando in quella che definisce l’operazione verità su Cucchi. Gianni Tonelli sostiene che la nuova perizia affidata dalla II Corte d’Assise di Appello di Roma ai consulenti Anna Aprile e e Alois Saller nell’ambito del processo d’appello che vede imputati cinque medici del Pertini. scagionerebbe i carabinieri. Nel documento si parla di “morte cardiaca su base aritmica”: “L’attenta analisi dei dati necroscopici permette di escludere la sussistenza di lesività traumatiche intrinsecamente idonee a causare la morte (…) Il paziente Stefano Cucchi – si legge nella perizia – al momento del ricovero era soggetto in condizioni che lo ritenevano predisposto a sviluppare eventi aritmici fatali in virtù del suo stato di grave malnutrizione«. Così come nella perizia di I grado, Cucchi viene definito ad alto rischio e – si legge nelle conclusioni – “il protrarsi dell’ipoalimentazione/digiuno durante il ricovero al Pertini, con conseguenti bradicardia e ipoglicemia gravi, ha determinato il peggioramento delle condizioni generali fino al decesso”. La scoperta del pestaggio violentissimo e della catena di depistaggi viene archiviata dal leghista come «barbarie del processo mediatico» ma è Fabio Anselmo, legale sia nel caso Aldrovandi che in questo di Cucchi, a smentirlo leggendo la medesima perizia: «Se Stefano non fosse stato picchiato non sarebbe finito al Pertini» rilanciando sulla «responsabilità dei carabinieri nella morte di Stefano»: «A pagina 26, 27 e 34 di quest’ultima perizia (dopo il passaggio enfatizzato da Tonelli, ndr) si riconosce il nesso causale dei traumi subiti che hanno contribuito allo stress e alle aritmie cardiache per le quali sarebbe morto Stefano, esclude anche l’epilessia. Se non fosse stato picchiato dai carabinieri, sarebbe ancora vivo. C’è negligenza dei medici, non lo abbiamo mai negato, ma si sovrappone. Abbiamo una pletora di testimoni che hanno visto Stefano in palestra che si allenava, l’impiegato comunale, quello da cui è andato a prendere la torta per il compleanno. Al di là di questo, se era troppo magro, faceva comunque una vita normale. Nel caso in cui venga picchiata una persona che fa uso di farmaci, con un fisico indebolito, se gli spacchi la schiena lo mandi in ospedale». «Un trauma alla colonna vertebrale non può essere causa di morte, lo abbiamo sempre detto – continua il legale della famiglia Cucchi – era in palestra il 15 ottobre alle 19, si era visitato prima di andarci. Basta dire fesserie. Quello che è successo in ospedale è colpa dei carabinieri: l’omicidio preterintenzionale dice che se io attento alla integrità fisica di una persona, rispondo di tutto quello che gli succede. I periti scrivono che il suo cuore si è fermato anche per il dolore, per i traumi subiti. Ci vuole qualcuno in malafede per non capirlo». E a proposito della pagina 22 citata dall’ex leader del Sap ora in servizio nella Lega («l’attenta analisi dei dati necroscopici permette di escludere la sussistenza di lesività traumatiche intrinsecamente idonee a causare la morte»), Anselmo ribatte: «A noi di questa perizia non ce ne può fregar di meno. Vogliamo dire che scagiona i carabinieri? Eppure viene detto che l’aritmia viene provocata da un complesso di fattori, come pure il dolore. I traumi subiti causano anche aritmia, Stefano non si è suicidato, voleva parlare con l’avvocato, ha scritto una lettera. Anche se lo avesse fatto di sua volontà, sarebbe colpa dei carabinieri, perché se non lo avessero pestato sarebbe ancora vivo perché non sarebbe mai stato ricoverato. C’è il caso di scuola di giurisprudenza: uno caduto durante una rissa si rompe una gamba, viene ricoverato all’ospedale di Comacchio dove gli fanno un gesso troppo stretto, dopo 20 giorni gli parte un embolo e muore. La persona che l’ha picchiato viene condannata per omicidio preterintenzionale. Se metto le mani addosso a qualcuno, qualsiasi cosa gli accade ne rispondo. Chiaramente anche i medici sono responsabili, ma è una delle concause». Per la cronaca: anche all’epoca del caso Aldrovandi, il portavoce della polizia, Roberto Sgalla, sosteneva che la perizia scagionava i poliziotti. Era lo stesso personaggio che disse che le molotov erano state ritrovate alla Diaz e che l’agente Spaccarotella, condannato per l’omicidio Sandri, aveva sparato in aria.

Tornando alle accuse dell’inchiesta per i depistaggi: Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero falsificato anche l’annotazione di servizio dell’altro piantone, il carabiniere Gianluca Colicchio che però non la volle firmare e non ha riconosciuto come sua la sigla in calce all’atto. «Il Cucchi suonava al campanello di servizio della cella e dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire pure di epilessia» diventava così che il Cucchi manifestava «uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi della scomodità della branda d’acciaio» facendo magicamente sparire ogni considerazione legata ai dolori.

Sabatino, colonnello, comandante operativo dei carabinieri di Roma e delegato del comandante provinciale all’acquisizione di una serie di atti sugli adempimenti successivi all’arresto, e il capitano Testarmata, comandante della IV sezione del nucleo investigativo dei Cc, delegato di Sabatino, s’erano accorti che le deposizioni erano farlocche, “ideologicamente false”, ma fecero gli indiani, secondo l’ipotesi del pm Musarò, guardandosi bene dal denunciare la faccenda. Testarmata si sarebbe anche accorto che il registro del fotosegnalamento della compagnia Roma Casilina era stato sbianchettato ma lo lasciò lì nonostante fosse stato sollecitato ripetutamente a prelevarlo da due ufficiali, il maggiore Grimaldi e il tenente Beringheli, uno che comandava la compagnia, l’altro il nucleo operativo della stessa che avevano evidenziato la necessità di eseguire accertamenti tecnici sull’originale del predetto registro per individuare il passaggio di Cucchi nella sala Spis, quella del fotosegnalamento. Anche in questo caso Testarmata si sarebbe fatto gli affari suoi sulla scoperta dello sbianchettamento sul nome di Stefano. Condotte, «poste in essere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso» che aiutavano a «eludere le investigazione delle autorità» «i carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia che erano responsabili di avere cagionato a Stefano Cucchi, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, le lesioni che nei giorni successivi ne determinavano il decesso».

Infine Luca De Cianni, redigendo un’annotazione di polizia giudiziaria in merito a un incontro con il carabiniere Casamassima, nel maggio 2015, attestava falsamente, come si legge sull’Acip, l’avviso di conclusione indagini preliminari, gli aveva riferito che alcuni carabinieri appartenenti alla stazione Appia avevano «colpito con schiaffi Stefano Cucchi ma che non si trattava di un pestaggio», che Cucchi s’era procurato lesioni più gravi con gesti di autolesionismo, «battendo più volte il viso a terra e al muro in cella», che Casamassima avrebbe chiesto soldi a Ilaria Cucchi in cambio di aver fornito «dichiarazioni gradite». Ora gli indagati hanno venti giorni per eventuali atti o memorie, depositate l’esito di indagini difensive, chiedere di essere interrogati o depositare dichiarazioni. Intanto il processo per l’omicidio riprenderà il prossimo 27 marzo. Riccardo Casamassima, a rischio di mobbing, e la moglie, Maria Rosati, entrambi carabinieri, con le loro dichiarazioni hanno permesso la riapertura del processo.

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Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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