Ho cominciato a leggere Camilleri con “La scomparsa di Patò“, quindi un po’ diversamente da molte e molti che vi si sono approcciati con i romanzi gialli incentrati sulla figura del commissario Montalbano. Poi, stuzzicato dalle trasposizioni televisive, mi sono lasciato prendere per mano e accompagnare nelle indagini siciliane di un poliziotto con uno spiccato senso dell’ironia e con un piglio anche serio e serioso che mi è sempre piaciuto molto.

Ma lo scrittore Camilleri era solo la metà di ciò che Camilleri era per davvero e interamente. Ci sono infatti scrittori che rimangono esclusivamente scrittori, narratori e che, anzi, fanno fatica a rimanerlo.

Così come vi sono giornalisti che provano a diventare scrittori ma non ci riescono e allora tornano ad essere cronisti, magari di nera e spaziano in televisione raccontando sempre dei gialli, addentrandosi negli usi e nei costumi di una italianità popolare sanguinolenta, che esprime le perversioni – nel vero significato della parola, nella sua più propria espressione etimologica – di una società che differisce dalla maggioranza dei comportamenti perché l’esasperazione diventa padrona degli istinti in un contesto di disperazione, di claustrofobia familiare, di impossibilità a reggere il contesto in cui si fa fatica a vivere, in cui il più delle volte si sopravvive.

Lo scrittore Camilleri, che era sono una parte del Camilleri intero, ha messo nero su bianco questa complessità della vita, dell’umanità che si trasforma in truculenza e che non si riconosce nemmeno da sé stessa una volta che viene interrogata da un commissario Montalbano qualsiasi, quindi con il tramite di un profondo incontro tra umanità al servizio della legge e di quest’ultima al servizio di una comprensione delle evoluzioni e delle involuzioni tutte umane che finiscono per essere non più eccezioni ma accezioni dell’essere vivente, pensante, ragionante e, all’apice della sua dissociazione con le regole e la morale, con le consuetudini e l’immagine del “cittadino”, piombato letteralmente nel buio dell’animo.

Camilleri quel buio lo conosceva anche percettivamente negli ultimi anni di vita, quando, divenuto cieco, s’era trasformato nell’indovino Tiresia, perché tutto sommato come diceva la Volpe al Piccolo Principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” e spesso sono proprio i nostri sensi primari che ci ingannano. In particolar modo quelli che non necessitano di fare uno sforzo in più degli altri.

La vista è immediatezza. Il tatto no. L’udito nemmeno. Per questo la vista è il senso che maggiormente è stato ammaestrato dalla comunicazione globale: tramite la televisione, la cinematografia, l’espressione artistica del fermo immagine di un quadro, di un momento, della fotografia moderna.

Tutto ciò che si riesce a far arrivare alla vista è già una conquista anche degli altri sensi: per sentire il calore di un corpo con la propria mano, questa bisogna protenderla, avvicinarla alla pelle altrui e sfiorarla. Non si tratta solo di uno sforzo meccanico ma prima di tutto intellettivo.

Camilleri aveva capito che tramite il linguaggio queste carezze poteva farle, rendendolo anche un po’ ostico a chi, come me, faceva e fa sempre un po’ di fatica nel leggere le parti in siciliano. Tante volte sono stato costretto a tornare e ritornare sulle frasi o su singole parole dialettali, ma ogni volta, vi chiedo di credermi, io vedevo un po’ di quella Sicilia che non ho mai visto e la immaginavo proprio grazie a questa mescolanza di lingue, a questo non dare per scontato che solo tramite l’italiano si può avere successo nell’editoria.

Montalbano, Patò e molte altre avventure descritte dal Camilleri scrittore ne sono la più plateale dimostrazione.

Ma, dicevo poco fa, che Camilleri scrittore era la metà di ciò che Camilleri era veramente per intero: perché lo scrittore che rimane scrittore è colui che quasi sotto dettatura contrattuale produce solo libri. Invece il nostro Tiresia era un intellettuale a tutto tondo, come se ne vedono più ormai dai tempi non troppo lontani della piena attività di Umberto Eco: un uomo di impegno sociale, di parola anche non scritta, di dichiarazione pubblica, di intervento nel quotidiano e di lotta.

Sì, di lotta fatta a suo modo, senza schematismi, ma dicendolo sempre: prima di tutto l’umanità, prima di tutto gli ultimi, prima di tutto gli sfruttati e i diseredati di questo mondo.

Per questo s’era attirato l’accusa oggi infamante d’essere “comunista” e lo rivendicava con quell’orgoglio di cui tutti dovremmo essergli grati. Essere comunisti oggi è necessario ma è sopportabile solo se sei consapevole d’essere oltre la minoranza, oltre il minoritarismo: d’essere, in sostanza, ramingo per le terre e per i mari di una antica canzone anarchica, quasi in esilio, quasi sul “galeon fatale” in piena procella.

Del resto s’era iscritto giovane al PCI e negli ultimi decenni aveva sempre esercitato il suo impegno politico a favore della difesa dei valori costituzionali, della Repubblica democratica, di una società a misura d’uomo e non di capitale.

Tiresia oggi ci ha lasciato, ma rimane bello pensare che l’Italia ha avuto, ancora una volta, un intellettuale a tutto tondo e che la stagione della cultura che diventa civismo, interesse collettivo partendo dal singolo, non è terminata.

A Camilleri la narrativa, la letteratura, la radio, la televisione e la società italiana devono più di quel che pensano.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Un pensiero su “CAMILLERI, UN BENE PREZIOSO PER LA CULTURA ITALIANA”

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