Sì Tav. Senza ambiguità: «Fermarla costerebbe molto più che completarla». Stavolta Giuseppe Conte non usa perifrasi, non maschera la nettezza della decisione. Ci sono in ballo i fondi Ue, «che non potrebbero essere adoperati per altre opere». C’è la decisione della Francia, già anticipata a Conte da Macron. Il dado è tratto, con ringraziamento di prammatica allo sconfitto, il ministro Danilo Toninelli. Resta solo da vedere come la prenderanno le truppe pentastellate. La capogruppo in regione Piemonte, Francesca Frediani, tuona immediatamente: «L’ok al Tav è inaccettabile». Il senatore Alberto Airola, capofila dei No Tav tra i 5S, ha già annunciato che lascerà il gruppo. Ha anche scritto a Grillo: «Che facciamo Beppe?». Risposta eloquente: un silenzio perfetto. I capigruppo Patuanelli e D’Uva chiedono che sia il parlamento a esprimersi «e in aula vedremo l’esito della votazione»: sanno che saranno sconfitti, ma vogliono segnalare che «la nostra posizione non cambia» Le voci possibili di dimissioni del ministro delle Infrastrutture si sono rincorse per tutto il giorno. «Che farà quando il governo avrà deciso per la Tav: se ne va da solo o aspetta il rimpasto?», ironizzava già nel primo pomeriggio Matteo Renzi. Conte ripete che il rimpasto non lo ha chiesto nessuno. Lui comunque non avrebbe niente in contrario. Ma la sorte di Toninelli, sopportato a stento dal suo partito quasi quanto dalla Lega, è segnata. La bomba, prevista e quasi annunciata da Salvini («La Tav si farà, sennò Toninelli che ci sta a fare?») esplode in serata e stabilizza più di quanto non sconquassi. I rischi di crisi campeggiano sui giornali. Ma nei palazzi della politica regna l’immobilità. L’agenda della settimana era fitta di impegni: cancellati uno dopo l’altro, rinviati a data da destinarsi senza commenti o spiegazioni di sorta. I leader più loquaci nella storia della Repubblica tacciono, o se proprio non possono evitarlo adottano uno stile che farebbe invidia ad Aldo Moro. I vertici decisivi fissati per oggi sulle autonomie, quelli che dovevano sciogliere il nodo principale, il conflitto sul Fondo di perequazione che i 5S reclamano e la Lega boccia, sono saltati. «Questioni di agenda», assicura palazzo Chigi senza sperare che qualcuno ci creda: «E’ che Conte sta limando il discorso al Senato sul Russiagate». Poi è d’uopo incontrare prima i governatori di Lombardia e Veneto, Fontana e Zaia. Quando? Chissà. C’è stato un rapido consiglio dei ministri però, senza Salvini, mentre quello di domani non si terrà. Zaia batte i pugni, chiede di riunirsi «in conclave»: porte chiuse e si esce solo con la fumata bianca. Fontana sbigottisce per il mutismo di palazzo Chigi. Di Maio ripete per la centesima volta la formuletta vuota: «Autonomia ma senza spaccare il Paese». Per Conte ci sono stati «significativi passi avanti: autonomia senza recare nocumento alle altre Regioni». Poi andrà lui a trattare con i governatori. Poi il Parlamento. La faccenda insomma è in alto mare. Depennato il Cdm che prometteva fuochi artificiali resta l’appuntamento clou di oggi pomeriggio a palazzo Madama, quel dibattito sui fondi russi nel quale avrebbero dovuto confrontarsi Conte e Salvini. Il primo ci sarà, il secondo no. «Forse vado e forse no. Sono a Roma ma c’è la riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza. Vedo se gli orari sono compatibili», dichiara con consapevole sprezzo. Se si presenterà non sarà per incrociare le lame ma solo per significare ancora di più la sua ferma intenzione di fregarsene del Parlamento. Conte, nei giorni della rissa, aveva fatto sapere che non avrebbe indossato i panni del difensore di Salvini. Cose che si dicono, come quando giurò che o i soci smettevano di litigare o li avrebbe piantati asso, salvo poi ingoiarsi muto settimane di lotta greco-romana. Certo accompagnerà la difesa d’ufficio con alcune critiche, soprattutto per censurare il rifiuto di mostrare rispetto per il Parlamento riferendo sul caso Savoini. Il grosso del discorso sarà una stentorea conferma della collocazione euroatlantica dell’Italia. Repertorio.