Cos’è successo a «l’Unità»? Qualche tempo fa lo hanno descritto alcuni giornalisti vicini alla testata che un tempo era comunista. Un tempo neanche troppo lontano a pensarci bene ma che ora sembra sideralmente distante. Come fa un giornale a perdere tutto quello che ha pubblicato su internet?

La risposta è semplice quanto complessa. Cambi di proprietà, legislazione non proprio impeccabile ed evidente noncuranza del patrimonio archivistico della testata hanno realizzato quel che una porzione di opinione pubblica ha conosciuto come la perdita della memoria di uno dei quotidiani più importanti d’Italia. Il combinato disposto fra il cambio della proprietà e la legislazione “non proprio impeccabile” hanno permesso che venisse demandata una questione cruciale, quella dell’archiviazione digitale della memoria delle pubblicazioni giornalistiche, agli editori e alla proprietà dei quotidiani. Vale la pena dare un paio di cenni normativi per chiarire il quadro della questione: quando i server de «l’Unità» sono stati spenti, così come quelli di altri quotidiani di partito («Liberazione», «La Voce Repubblicana», «La Rinascita») e non («Cronache del garantista», «Liberal», «e-Polis», «Corriere Laziale»), le proprie pubblicazioni digitali sono andate perdute. Questo è stato possibile perché il regolamento d’attuazione del d.p.r. 252/2006 – che obbliga gli editori al deposito legale digitale così come per quello cartaceo – non era (e non è) stato ancora pubblicato. Cos’è il deposito legale? Il deposito legale, cioè la consegna obbligatoria delle pubblicazioni negli istituti depositari da parte dei soggetti previsti dalla legge (DPR 252/2006), è lo strumento normativo che consente la raccolta e la conservazione dei diversi prodotti in archivi nazionali e regionali. L’obbligo, nonostante sia rivolto anche alle produzioni native digitali non è stato normato dal regolamento d’attuazione per far sì che le pubblicazioni editoriali possano essere ‘raccolte’ dagli organismi preposti dalla legge. Quando ad un sito internet, pur appartenente ad una testata giornalistica di rilevanza nazionale, vengono spenti i server a cui punta a causa della cessazione della vita della testata o di un momento delicato della vita della stessa (es. un cambio di proprietà) e non sono state fatte copie dei contenuti pubblicati, il rischio è quello di perdere tutto quanto sia stato originalmente “postato” sulla rete. Tre giornali differenti, un comune denominatore Il caso de «l’Unità» è eclatante e già all’inizio del 2017 l’archivio digitale risultava irreperibile, qualora un utente avesse provato a digitare l’indirizzo del dominio http://archivio.unita.it, tanto che Pietro Spataro, già giornalista della testata, iniziò a scrivere all’allora direttore Sergio Staino chiedendo spiegazioni a riguardo. Staino disse che si stavano solo aggiornando le macchine perché obsolete. Un po’ come quella scena del “Compagno don Camillo” in cui Gino Cervi, sindaco comunista di Brescello in visita in Urss, chiede prepotentemente a delegati del Pcus come mai siano stati rimossi dall’hotel in cui alloggiavano tutti i quadri che raffiguravano l’allora segretario Kruscev. Risposta: «Per spolverarli». L’indomani i comunisti emiliani si ritrovarono con un altro segretario del Pcus raffigurato, trattavasi di Breznev. Il problema è che non c’è stata nessuna ‘spolveratina’ ai server del quotidiano che un tempo era comunista ma solo una decisa rimozione di tutti i contenuti originali pubblicati unicamente sul sito e su tutti i sottodomini. Al momento l’archivio digitale del quotidiano si trova nel cosiddetto deep web e lo si può consultare tramite TorBrowser http://unitaqqvhnjahzmg.onion/ grazie all’opera di un gruppo di hacker – ribattezzati scherzosamente dalla rete data ninja – che ha salvato buon parte del patrimonio dal 1946 fino alle edizioni più recenti ma non riuscendo nulla per le edizioni locali e nazionali pubblicate fra il 1929 e il 1946. Allo stesso modo il tormentato percorso di fine-vita (stavolta non volontario) di «Liberazione», il quotidiano organo di Rifondazione Comunista, è molto simile a quello della «Voce Repubblicana», organo del Partito repubblicano italiano il cui patrimonio cartaceo esiste (e lotta insieme a noi!) nelle annate presenti nelle sedi dei due partiti citati. Nessun backup dei contenuti pubblicati solo sui rispettivi siti internet, però, è stato mai realizzato da parte delle redazioni dei quotidiani. La giustificazione che hanno dato i responsabili di entrambe le pubblicazioni, tutt’ora membri dirigenti e organizzativi dei due partiti di riferimento (Prc e Pri) è stata quella per cui nessuno pensava di “finire in così breve tempo”, dunque, “non abbiamo mai salvato nulla”. “Sul ponte sventola bandiera bianca” L’evidente inconsapevolezza del comportamento da attuare da parte da parte di direttori e dalla proprietà dei quotidiani rispetto ad una normativa assente, lacunosa o che non stabilisce chiaramente quali siano gli obblighi da assolvere, come al contrario avviene per il deposito legale è la chiave di lettura per leggere tutti e tre i casi. Tuttavia in mancanza di una normativa che regoli chiaramente il deposito legale digitale, la conservazione della memoria dei siti web viene lasciata all’iniziativa dei singoli i quali, come s’è visto, non posseggono gli strumenti per comprendere l’importanza dell’archiviazione digitale a cui va aggiunto una predisposizione di noncuranza e inosservanza da parte delle redazioni circa l’importanza del rinnovo del dominio e dei relativi servizi nei confronti dell’azienda scelta al momento della registrazione. La mancanza del rinnovo del dominio, infatti, nonostante possa essere interpretata come una fatalità, è una delle cause che generano la successiva perdita della memoria digitale di un quotidiano, in mancanza della normativa specifica. Si aggiunga, inoltre, che il personale che svolga funzioni archivistiche con competenza non è presente nella maggior parte delle redazioni di quotidiani nazionali: tra quelle citate nessuna possedeva personale con formazione archivistica in grado di gestire sia il patrimonio cartaceo che digitale. La conseguenza è stata la perdita integrale del proprio archivio digitale, aprendo delle vere e proprie voragini nella memoria dell’informazione politica nel Paese.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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