Svizzera e Stati Uniti, paesi liberaldemocratici modello, in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini.
La Confederazione elvetica, ovvero la Svizzera, prototipo di paese liberaldemocratico è al contempo il paese più oligarchico del mondo, dove il grande capitale finanziario transnazionale regna nel modo più incontrastato, al punto che persino l’adesione all’Unione europea non è presa in considerazione in quanto, in qualche modo, limiterebbe tale strapotere. Per altro la Svizzera è forse il più importante paradiso fiscale del pianeta e il principale centro di riciclaggio del denaro sporco, anche della malavita organizzata. Tuttavia, si dirà – al di là di queste palesi contraddizioni fra il dichiararsi una liberal-democrazia e l’essere il principale centro di una oligarchia dedita a ripulire il denaro sporco dei maggiori criminali globali e a non far pagare le tasche ai ricchissimi per scaricarle sui poveri, accrescere il debito pubblico e smantellare un po’ ovunque quanto resta del sedicente Stato sociale – la Svizzera resta comunque un baluardo nella difesa dei diritti degli individui. Certo, si potrebbe rispondere, se non si tenesse conto – come fa il pensiero unico dominante – che naturalmente nella Confederazione elvetica sono ben presenti le tre grandi esclusioni proprie della tradizione liberale. Abbiamo visto che il rispetto per i diritti, la sicurezza, la proprietà della persona valgono in primo luogo solo per i cittadini, mentre in tutto il resto del mondo si favorisce l’evasione fiscale e il successo di attività criminose che mettono costantemente in discussione i diritti, la sicurezza e la proprietà privata dei non svizzeri. In secondo luogo, sono sostanzialmente esclusi da questi diritti i lavoratori stranieri ultra-sfruttati che fanno la fortuna del paese, anche per quanto riguarda la stabilità del sistema, visto che gli autoctoni anche proletari godono di un tenore di vita molto superiore a quello dei lavoratori immigrati. Ciò ha reso la stragrande maggioranza dei lavoratori salariati svizzeri dei privilegiati che, per preservare il loro superiore status sociale, hanno nei fatti accettato un sistema, sotto diversi aspetti, neo-corporativo. Infine, non si può nemmeno trascurare la terza forma di esclusione dai diritti individuali liberal-democratici, ovvero quella legata alla discriminazione di genere. Si consideri che in Svizzera la legge sulla parità fra uomini e donne è del 1981, ma è entrata in vigore solamente nel 1996, ovvero quasi ottant’anni dopo che tale legge fosse conquistata nel più arretrato e meno liberal-democratico paese d’Europa, ossia l’impero russo a opera della tanto denigrata, dai liberal-democratici, rivoluzione. Del resto, come già notava a ragione Adam Smith, un paese democratico non avrebbe mai abolito la schiavitù, visto che la maggioranza sarebbe costituita da padroni di schiavi o da plebe che difendeva i propri miseri privilegi. Tanto è vero che gli Stati Uniti, il primo grande paese del mondo in cui si è affermata la liberal-democrazia, è stato anche uno degli ultimi ad abolire prima la schiavitù e poi l’apartheid. Senza contare che negli Usa, ancora oggi, gli afroamericani subiscono discriminazioni di ogni genere. Non a caso il partito degli schiavisti negli Stati Uniti era proprio il partito democratico. Una democrazia per il popolo dei signori, fondata sulla schiavitù dei neri, il genocidio dei nativi, la semi schiavitù dei coolie cinesi, la mancanza di diritto e lo sfruttamento intensificato degli immigrati più recenti o, comunque, di origine non anglosassone, e delle donne. Non è nemmeno un caso che, come aveva previsto A. Smith, ci vorrà un governo sostanzialmente dittatoriale, quello imposto da Lincoln al sud schiavista dopo la guerra di secessione – una separazione avvenuta per difendere lo schiavismo – per giungere a una reale emancipazione degli afro-americani. Al contrario, finito questo decennio di sostanziale dittatura del nord sul “democratico” sud, con l’accordo fra nordisti e sudisti fu imposto ai neri un regime di apartheid, in vigore negli Stati del Sud fino agli anni sessanta inoltrati. Anche in questo caso non furono certo i governatori democraticamente eletti degli Stati del sud a porre fine all’apartheid. Anzi, questi ultimi utilizzarono tutti i mezzi necessari per impedire al governo centrale di porre fine alle discriminazioni sul piano legale degli afroamericani. I politici democraticamente eletti del sud arriveranno a minacciare una nuova secessione dal nord, pur di difendere l’apartheid, e a organizzare i picchetti organizzati dai cittadini inferociti che impedivano ai bambini afroamericani di poter andare nelle scuole finalmente unificate. Anche in questo caso dovette intervenire in modo sostanzialmente antidemocratico il potere centrale federale, che terrorizzato delle conseguenze sul piano internazionale e dalla crescente capacità di attrazione sugli afro-americani dei comunisti, fece intervenire addirittura l’esercito per consentire che le più evidenti misure di apartheid fossero realmente eliminate. Allo stesso modo la fine della discriminazione legalizzata delle donne non fu centro una conquista liberal-democratica, ma al contrario fu il terrore del consenso che incontrava anche negli Stati Uniti il comunismo, dopo che con il ciclo rivoluzionario russo le donne avevano conquistato la completa parità dei diritti, a costringere il potere centrale statunitense a riconoscere i diritti politici alle donne. Nel nostro stesso paese ci fu bisogno della vittoriosa lotta-armata della resistenza egemonizzata dai comunisti e dell’Urss contro i nazi-fascisti per riconoscere anche alla donne i pieni diritti politici, che nessuno dei precedenti governi liberal-democratici, nemmeno quello tanto esaltato dall’ideologia dominante di Giolitti, si era sognato di realizzare. Del resto anche a livello internazionale la lotta contro il colonialismo e l’apartheid è stata portata avanti dai comunisti di contro ai liberal-democratici che, sino alla caduta del blocco sovietico, hanno continuato a sostenere lo stesso regime del Sud Africa e, ancora oggi, sono i principali alleati di Israele, dove permane una situazione di sostanziale occupazione coloniale e apartheid nei confronti dei palestinesi. Allo stesso modo i regimi più oppressivi nei confronti delle donne, per non parlare degli omosessuali – sebbene si tratti di paesi antidemocratici e teocratici – sono insieme a Israele fra i più stretti alleati dei paesi liberal-democratici, a partire proprio dagli Stati Uniti. Tornando al prototipo elvetico di liberal-democrazia dobbiamo ricordare come il diritto all’aborto è stato depenalizzato solo nel 2002, mentre nella pur maschilista Cuba dopo la rivoluzione tale conquista, oltre alla più completa eguaglianza, è stata garantita già negli anni sessanta. Del resto anche in Nicaragua con la restaurazione liberal-democratica, anche sotto l’attuale governo dei sandinisti, le donne hanno perduto buona parte dei diritti che avevano conquistato dopo la rivoluzione socialista. Per altro nella liberal-democratica Svizzera ancora oggi lo stipendio delle donne è del 20% inferiore a quello degli uomini nel settore privato e di oltre il 16% nello stesso settore pubblico, la partecipazione sociale delle donne è sotto il 30% e le donne dirigenti sono appena il 35% e, anche in questi ambiti, si sono fatti passi significativi solo negli ultimi anni. Le cose non vanno meglio nemmeno per quanto riguarda l’eguaglianza formale davanti alla legge e i diritti politici di cui tanto si vantano i liberal-democratici. Tanto che nell’esemplare liberal-democrazia diretta della Svizzera, non essendoci stata nemmeno l’esperienza partigiana, le donne hanno conquistato il diritto di voto solo nel 1971, ovvero in un momento di massimo sviluppo dei movimenti sociali progressisti a livello internazionale. Anche in questo caso, si è trattato di un’imposizione dello Stato centrale, tanto che ancora oggi in ben otto cantoni, dove vige in pieno il sistema liberal-democratico, tale diritto non è riconosciuto. Le stesse lotte dei movimenti per l’emancipazione delle donne, che ancora oggi sono costrette a mobilitarsi, incontrano notevoli difficoltà visto che nella liberal-democratica Svizzera ci sono fortissime limitazioni al diritto di sciopero. Così anche l’ultima grande mobilitazione di qualche giorno fa è stata considerata legale solo in alcuni cantoni, città e università, mentre in altri è stata vietata. Tanto che la Confindustria svizzera ha definito illegale lo sciopero contro la discriminazione della donna. Sempre per quanto riguarda il mancato rispetto anche dei diritti più elementari delle donne in un altro paese internazionalmente considerato come il campione della liberal-democrazia, ovvero gli Stati uniti, un giornale non certo tacciabile di antiamericanismo come “La repubblica” ha recentemente pubblicato una significativa inchiesta dall’emblematico titolo: “Spose bambine, anche negli Usa è legale sposarsi a 11 anni”. Quindi non solo gli Stati Uniti sono i principali alleati delle petromonarchie del Golfo, veri e propri campioni a livello internazionale della discriminazione della donna, ma come si può leggere nel sottotitolo del suddetto reportage negli Usa: “tra il 2000 e il 2015 ci sono stati circa 250 mila casi di matrimoni di minori, secondo le stime di Unchained at Last. Un fenomeno legato prevalentemente alla povertà. In 25 Stati non sono esplicitati limiti d’età per le nozze”. Veniamo così a conoscere, ad esempio, dal suddetto articolo di Marina Mastroluca, l’emblematico caso di Sherry, una bambina statunitense di appena undici anni, costretta a sposarsi dai suoi genitori che avevano eseguito la “decisione” presa dagli “anziani della chiesa pentecostale” da loro frequentata. “Il suo stupratore, di nove anni maggiore di lei, sarebbe diventato suo marito ed ogni cosa sarebbe tornata al suo posto. Nessuno avrebbe più indagato, sua figlia – nata quando Sherry (la bambina stuprata e costretta a sposare il suo carnefice) aveva appena 10 anni – avrebbe avuto il nome del padre. Tutto sarebbe tornato a posto. Tranne la sua vita”. Più in generale, veniamo a sapere dal medesimo articolo che “oggi negli Usa le spose bambine sono di fatto un fenomeno legale”. Visto che al di là dei 25 Stati che non limitano l’età delle nozze, “in quasi tutti gli altri è possibile a 13-14 anni e sono previste alcune condizioni, come il consenso dei genitori o in caso di gravidanza”. Ancora più paradossali – in un paese da sempre impegnato nella esportazione anche armata della liberal-democrazia in tutto il mondo – sono i motivi per cui i governatori degli Stati, in cui anche recentissimamente erano state presentate proposte per porre dei limiti di età ai matrimoni, le hanno respinte, ovvero che tali leggi sarebbero andate “contro le consuetudini religiose”. Al di là dei motivi religiosi, considerato che tale usanza è “trasversale alle diverse fedi religiose”, vi sono al solito motivi strutturali, ovvero il denominatore comune di tali terribili abusi è la povertà materiale o culturale, dal momento che nella maggioranza dei casi si tratta “di ragazzine stuprate, date in spose per evitare i rigori della legge là dove questa vieta il sesso con i minori”. Anzi, aggiunge Mastroluca, “le nozze sono persino un modo per mascherare la tratta delle minorenni, quando dovesse cadere sotto la lente degli investigatori. O per evitare lo scandalo”. Così, in molti casi, invece di arrestare il pedofilo stupratore, si costringe la vittima a sposare il suo carnefice. Inoltre, essendo la vittima ancora una bambina, non può nemmeno chiedere il divorzio.
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