I negoziati per trovare un accordo commerciale tra Cina e Stati Uniti, ripresi dopo mesi di stallo nella giornata di mercoledì a Shanghai, erano stati preceduti da un intervento del presidente americano Trump che ha contribuito ad avvelenare un’atmosfera già di per sé non particolarmente incoraggiante. Alla chiusura dei lavori durati nemmeno 24 ore, le due parti si sono ritrovate ancora una volta lontane, mentre in precedenza la stessa Casa Bianca sembrava essere vicina a riconoscere anche ufficialmente la quasi impossibilità a risolvere attraverso la diplomazia un conflitto con implicazioni che vanno ben al di là dei dazi e delle tariffe doganali. Il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e il responsabile delle politiche commerciali, Robert Lighthizer, hanno guidato la delegazione americana in Cina per il primo vertice bilaterale dallo scorso mese di maggio. Un’intesa sembrava essere allora a portata di mano, prima che le trattative facessero registrare un sostanziale crollo. Un nuovo impulso al dialogo era stato dato da Trump e dal presidente cinese, Xi Jinping, nel corso del G-20 di Osaka a giugno, ma il rilancio era apparso da subito come un’iniziativa su base personale o poco più da parte dei due leader. Nel frattempo, le posizioni non sono cambiate e, infatti, le modeste aspettative per un possibile e significativo appianamento delle differenze, se non un accordo bilaterale vero e proprio, sono state confermate. Le due parti si sarebbero semplicemente accordate su un nuovo round di negoziati nel prossimo settembre e, per quanto riguarda i contenuti della disputa, i comunicati ufficiali hanno parlato più che altro di discussioni circa l’impegno cinese ad acquistare maggiori quantità di prodotti agricoli statunitensi. Come accennato all’inizio, poco prima dell’incontro di Shanghai il presidente Trump aveva riproposto la medesima strategia negoziale della sua amministrazione, attuata quasi sempre alla vigilia di importanti vertici diplomatici, con un gesto provocatorio inteso a esercitare pressioni sulle proprie controparti. Ancora una volta tramite il canale di Twitter, Trump aveva attaccato il governo cinese proprio per non avere finora mantenuto l’impegno preso con Washington di importare ingenti quantità di beni prodotti dal settore agricolo americano, in modo da aggiustare una bilancia commerciale che pende largamente a favore di Pechino. L’inquilino della Casa Bianca aveva poi sostenuto che la Cina continua a “ingannare” gli Stati Uniti e che il problema di questo paese sarebbe il mancato rispetto degli accordi sottoscritti, puntualmente modificati per piegarli a proprio favore. A suo dire, i vertici del Partito Comunista cinese vorrebbero anche attendere le elezioni dell’autunno 2020 per firmare un accordo con gli Stati Uniti, nella speranza che Trump non venga rieletto e che al suo posto si installi alla Casa Bianca un democratico meglio disposto verso Pechino. Le inclinazioni anti-cinesi della classe dirigente americana, tuttavia, restano un affare ampiamente bipartisan. Per Trump, comunque, questa tattica sarebbe destinata a un completo fallimento. Dopo la sua rielezione da qui a poco più di un anno, aveva sostenuto il presidente USA, la Cina potrà ottenere “un accordo molto meno vantaggioso di quello attualmente sul tavolo” o, addirittura, potrebbe non esserci alcun accordo. L’ostentata delusione di Trump a proposito della promessa cinese non mantenuta di incrementare sensibilmente soprattutto le importazioni di soia dagli Stati Uniti è il riflesso delle consuete tendenze all’unilateralismo dell’amministrazione repubblicana, destinata a scontrarsi con la realtà dei rapporti con gli altri paesi. Infatti, l’impegno di Pechino era vincolato alla decisione del governo USA, ugualmente non ancora implementata, di sospendere le sanzioni contro il colosso cinese Huawei e, in particolare, lo stop alle forniture di microchip e altri componenti acquistati da aziende americane. Il governo USA continua ad ogni modo a tenere formalmente una posizione intransigente, chiedendo non solo un riequilibrio della bilancia commerciale, ma anche e soprattutto la fine dei presunti trasferimenti forzati di tecnologia imposti alle compagnie americane operanti in Cina e, in maniera cruciale, la rinuncia al piano di sviluppo industriale e tecnologico di questo paese, sostenuto pressoché interamente dallo stato. Quest’ultimo aspetto del conflitto sino-americano è appunto il più delicato, perché implica una minaccia diretta alla supremazia tecnologica e militare degli Stati Uniti in chiave futura. La Casa Bianca deve però anch’essa muoversi con una certa cautela. Una parte consistente della grande imprenditoria americana è fortemente critica dei dazi già applicati alle esportazioni cinesi e teme un peggioramento delle prospettive di business se le trattative dovessero naufragare. Gli effetti della “guerra commerciale” in atto stanno poi pesando negativamente proprio sull’economia americana, anche se la retorica di Trump continua a caratterizzare le politiche protezionistiche introdotte in questi mesi come un’arma in grado di penalizzare esclusivamente la crescita cinese. Se, ad ogni modo, la strategia di Washington è quella di convincere la leadership cinese a piegarsi e ad accettare le richieste americane, non sembra esserci finora alcun segnale della sua efficacia. Ad ogni provocazione, Pechino risponde con un irrigidimento delle proprie posizioni, lasciando intendere che qualsiasi accordo bilaterale debba necessariamente prevedere il riconoscimento delle legittime ambizioni di un paese che è già oggi la seconda potenza economica del pianeta. Emblematico dell’attitudine cinese è stato ad esempio un commento pubblicato mercoledì dal tabloid governativo in lingua inglese Global Times. L’articolo ha rispedito al mittente le accuse di inaffidabilità mosse contro la Cina dal tweet del giorno precedente di Trump, ricordando correttamente come sia stato piuttosto l’attuale governo americano ad aver fatto carta straccia di svariati accordi e trattati internazionali di cui faceva parte o era sul punto di sottoscrivere. Il Global Times ha inoltre rivendicato un andamento soddisfacente dell’economia cinese, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, e sostenuto che l’amministrazione Trump è “più impaziente di siglare un’intesa” rispetto alla Cina. L’esito delle presidenziali americane del prossimo anno, infine, non avrà alcuna influenza sulle posizioni o sulle aspettative cinesi, dal momento che l’intera classe dirigente di Washington ha lo stesso punto di vista sugli interessi globali degli Stati Uniti. Ciò che Pechino chiede, perciò, sono “onestà e sincerità”, assieme all’abbandono da parte americana dell’abusata strategia della “massima pressione”, i cui effetti risultano ormai in fase nettamente declinante.

http://www.altrenotizie.org/primo-piano/8545-usa-cina-il-miraggio-dell-accordo.html

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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