Il tribunale di Milano il 5 agosto scorso ha rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il Jobs Act, in particolare la parte che regola i licenziamenti collettivi. Il casus belli di questo affondo sulla legge del 2015, stipulata dall’allora governo Renzi, è il licenziamento collettivo messo in atto dall’azienda Consulmarketing che nel 2016 provò (e riuscì) a liberarsi di 350 dipendenti per poi riassumerli come collaboratori, di fatto esternalizzandoli, a fronte di una perdita importante di fatturato.
In Italia moltissime società, anche grandi multinazionali, utilizzano “trucchetti” di questo genere avendo tutti gli appigli legali e tutte le risorse per utilizzare contratti di collaborazione invece che contratti di lavoro dipendente usufruendo di tutte le agevolazioni del caso. La diatriba nasce dalla successiva causa collettiva intentata dai lavoratori nei confronti della suddetta azienda, causa conclusasi con la disposizione del tribunale di Milano per la riassunzione di tutti i dipendenti per licenziamento illegittimo, tutti tranne una per la precisione: una lavoratrice, unica assunta a tempo indeterminato dopo la fatidica data del 7 marzo 2015, data che segna la fine dell’articolo 18 per le aziende con più di 60 dipendenti, non prevedendo la riassunzione in caso di illegittimità del licenziamento ma prevedendo solo un indennizzo economico dalle 4 alle 24 mensilità (modificato dall’ultimo governo dalle 6 alle 36 mensilità) calcolate come due mensilità per ogni anno di lavoro nell’azienda.
Questa difformità di trattamento, secondo i giudici di Milano (e anche secondo un criterio oggettivo e evidente), segna sia la violazione della direttiva europea 99/70 che “indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori”, sia gli articoli 20 (“tutte le persone sono uguali davanti la legge”) e 30 (“Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”) della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Questo secondo parere contrario arriva dopo il parere della Consulta che aveva già dichiarato il Jobs Act incostituzionale per la violazione degli articoli 4 e 35 che garantiscono e tutelano il diritto al lavoro per tutti i cittadini.
Tutta questa vicenda mostra in particolar modo come le politiche borghesi tendano in ogni modo a forzare le tutele che la stessa borghesia, sotto la spinta delle lotte dei lavoratori nel tempo, ha dovuto cedere, forzature che vengono fatte anche a rischio di contraddire norme precedenti o sovranazionali. Le leggi e le costituzioni, in sé, sono convenzioni sociali, sono pezzi di carta: alla fine a prevalere sono sempre le forze materiali che ci sono in campo in un dato momento; oggi la borghesia è all’attacco e i lavoratori devono sopportare il peso di leggi “ingiuste” e contraddittorie. Quanti altre lavoratrici e lavoratori hanno perso il posto a causa del Jobs Act? In quanti non hanno trovato un giudice non del tutto compiacente con i padroni? Per ogni causa vinta ce ne sono una miriade che vengono perse o che non vengono proprio aperte, per mancanza di informazione o di risorse da parte degli operai.
Ben vengano le vertenze e le sentenze dei giudici quando possono essere usate come armi ausiliarie contro le leggi e i decreti dei padroni, ma l’arma di difesa più efficace contro norme discriminatorie, ingiuste e vessatorie rimane l’organizzazione ela lotta dei lavoratori a difesa dei propri interessi di classe.