Più la crisi di governo va verso la sua soluzione, ormai definita nell’asse PD – Movimento 5 Stelle e probabilmente anche Liberi e Uguali (quindi con annessa e connessa Sinistra Italiana), più risulta evidente che uno dei problemi che emergono è il ruolo proprio della sinistra di alternativa in questo scenario completamente rivoluzionato rispetto a pochissime settimane or sono. Giacomo Marramao, allievo di Garin, che ha studiato approfonditamente gli sviluppi del marxismo occidentale, ha scritto: “Le logiche di apparato e di occupazione del potere hanno trasformato la ‘Cosa’ postcomunista in un partito di governo dal profilo essenzialmente moderato“. Qui ci si riveriva, ovviamente, alla mutazione del grande Partito Comunista Italiano in un divenire abbastanza repentino che portò milioni di comuniste e comunisti a ritenersi, nel giro di pochi mesi, altro da sé medesimi, facendosi largo tra quelle maglie della socialdemocrazia che venivano sempre più dilatate dall’insufficienza governativa del PSI e, parimenti, dall’allentarsi della solidità dell’alternativa comunista per troppo tempo rappresentata solamente (o quasi) dal complesso monumentale degli stati dell’Est-Europa a regime capitalistico di Stato. Ma la “narrazione” di allora recitava ancora che quello era il punto di riferimento quanto meno ideale: che Lenin, destalinizzata l’URSS, era ancora il modello cui riferirsi, nonostante il PCI fosse il contrario esatto di un partito leninista fatto di rivoluzionari di professione, di integerrimi quadri, escludendo dal processo di trasformazione sociale e rivoluzionaria proprio quelle masse che invece, saggiamente, Berlinguer e Longo (seppure con alcune storture per quanto riguardava il rapporto, ad esempio, con la grande massa studentesca) avevano tenuto insieme per controbilanciare il potere democristiano, atlantico e dagli strani risvolti sempre poco chiari in certi ambiti del centrismo moderato (e tendente a destra) che rasentavano il confine dell’incostituzionalità. La sinistra comunista, dunque, nel corso della sua storia è stata tentata molte volte dal partecipare ad esperienze di governo per provare a spingersi oltre l’opposizione istituzionale, ma cercando di verificare quanto potesse reggere il continuare ad essere forza di lotta, affiancando sindacati e movimenti sociali, e provando a divenire contraddizione di peso, certamente di molto peso, negli affari di governi che erano stati per lo più monocolori cattolico-democratici e, successivamente, tutti esecutivi a traino DC (fino almeno all’ascesa di Craxi) con attorno i satelliti liberali, repubblicani e socialdemocratici. Piero Borgna (in un suo utile pamphlet dal titolo “Senza sinistra”, edito da Castelvecchi) rielabora una preziosa osservazione del sociologo tedesco Karl Mannehim proprio in merito alle mutazioni generazionali della sinistra: “E’ vero che i movimenti come quelli del ’68 hanno avuto un gran peso sulle vicende politiche della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta, ma poi sono fatalmente rifluiti perché solo in alcuni momenti, in alcune brevi fasi della storia, i giovani si sentono ‘generazione effettiva’ e non semplice ‘gruppo di età’“. E’ bene avere chiaro che oggi, a distanza di quarant’anni da quei fragorosi anni ’70 e a trent’anni dalla “svolta della Bolognina”, noi ci troviamo a recuperare i cocci di una sinistra che, nel pieno della sua evanescenza e della sua irrilevanza è ancora tentata dalle sirene di un potere che giustifica come proprio apporto essenziale al benessere della nazione. Un imprescindibile movimento di coscienze, tutte quelle poche rimaste, volte a supplicare quasi – come s’è visto dalle copertine di questi giorni de “il manifesto” – il futuro governo PD – Movimento 5 Stelle di volgere uno sguardo ad un programma riformatore, sociale, egualitarista formulato in dieci punti da eminenti personaggi della cultura, dell’accademia e dello spettacolo. Vengo dunque al punto che mi pare fondamentale da affrontare: si tratta di una sottovalutazione dei rapporti di forza o di una presa di posizione frutto della disperazione figlia di una irrilevanza manifesta ma non ancora elaborata sul piano meramente psicologico-politico? Lo scrivo senza ironia, perché davvero fatico a comprendere come si possa lanciare un appello ad una forza liberista come il Partito democratico, certamente attenta al rispetto dei diritti civili, del formalismo costituzionale (il che, al tempo dei sovranisti, non è certamente cosa di poco conto), ma tutta dedita alla protezione dei grandi interessi di potere mossi dal capitalismo continentale (e non solo) e un’altra forza, i Cinquestelle, che dopo i colloqui col Presidente della Repubblica hanno ribadito la loro natura “post-ideologica”, la fine quindi di categorie “arcaiche” come “destra” e “sinistra”. Per quanto li riguarda, ovvio. Ma siamo davanti a forze di governo che lo erano prima e lo saranno ancora dopo, seppure con un cambio di metà dell’esecutivo che mai s’era visto prima nella storia repubblicana del Paese. Come può una sinistra anche moderata, ma pur sempre sinistra di alternativa, aderire ad un progetto di governo che necessariamente imposterà la sua azione sulla tutela dei profitti, delle grandi esigenze bancarie e finanziarie e che seguirà alla lettera le indicazioni della Commissione Europea? Può se il tentativo è quello di ritagliarsi uno spazio di azione in una complessiva esclusione dal consenso di massa, anche solo da un consenso minore che è andato perduto proprio perché la “domanda di sinistra” è esclusa dalle necessità sociali in quanto l’aspirazione all’uguaglianza sociale è messa in secondo o terzo piano rispetto al “si salvi chi può” che regna sovrano nel moderno spirito egoistico alimentato da false ispirazioni sociali di altrettanto false forze sociali: quelle delle destre sovraniste che hanno governato il Paese per oltre un anno; ed anche di forze antisociali che finiscono per essere definite “rosse” soltanto perché derivano ormai sempre più lontanamente da un passato socialdemocratico dopo e comunista prima. Luigi Vinci lo evidenzia con grande chiarezza (“Il ritorno in occidente della lotta di classe”, ed. Punto Rosso), citando il sociologo americano Beverly Silver: “E’ altrettanto possibile che debbano verificarsi importanti trasformazioni a livello cognitivo prima che l’azione collettiva possa emergere, così come può darsi che le grandi ondate di militanza operaia non siano né precedute da quella che potremmo definire ‘coscienza della classe operaia’, né portino ad ‘acquisirla‘”. Il “livello cognitivo” di cui parla Silver è piuttosto interessante se, sia come concetto sia come analisi diretta del passato riportata sul presente, diventa una lente di allargamento della visuale di ristretti campi visivi su un modo sociale privo di coscienza classista, anche solamente di criticità nei confronti del capitalismo, quindi del mondo in cui ci troviamo tutte e tutti a vivere. Una sinistra riformista che davvero vuole difendere la democrazia non si appoggia a governi liberisti pensando di portarvi chissà quale plusvalore politico, morale, etico e persino sociale tale da cambiare il corso degli eventi. Dovrebbe avere un minimo di lungimiranza e comprendere, visti anche e soprattutto i fallimenti del recente passato, che i rapporti di forza contano anche nella sovrastruttura soprattutto se con questa si intende giocare a cambiare i rapporti di forza strutturali. Tutt’al più si finisce per fare da supporto “di sinistra” meramente mediatico per chi abbia interesse a spacciare il futuro governo come, appunto, un esecutivo “giallo-rosso”: si dà un po’ di tintura al rosa pallido del PD, avendo la tronfia certezza di essere parte di un gioco importante, non eludibile e a cui per forza una parte del progressismo italico deve prendere parte. Invece così non si fa altro se non: 1) dimostrare ancora una volta la propria inattendibilità circa la volontà di ricostruire un luogo politico e sociale dell’anticapitalismo e antiliberismo in Italia; 2) confermare la propria vocazione non al capovolgimento sociale mediante anche una lunghissima via che passi per tratture riformistiche non certo facili, ma semmai aderire alla teoria secondo cui tutto ciò che ci circonda è solamente “un poco” migliorabile. L’argomento, poi, della “difesa della democrazia” ha una sua importanza e lo abbiamo rivendicato mille volte qui su la Sinistra quotidiana e anche altrove. Chi vorrebbe vedere la Repubblica democratica nata dalla Resistenza infangata dal crudelismo del neofascismo sovranista? Nessun comunista, nessun cittadino che ha un po’ di umanità nel proprio quotidiano vivere civile. Ma la difesa vera della democrazia non la si fa finendo per appoggiare politiche antipopolari (perché questo finiranno con l’essere i provvedimenti del futuro governo, inevitabilmente visto da dove origina, visto a chi fa riferimento economicamente, visto che è composto da chi ha attaccato scuola, sanità, lavoro e Costituzione nel recente passato e da chi ha governato con una forza eversiva rispetto al diritto civile e a quello sociale). La difesa della democrazia vorrebbe una sinistra di alternativa all’opposizione, cosciente e consapevole, capace di votare provvedimenti favorevoli al miglioramento delle condizioni di vita del moderno proletariato di questo Paese (formato da precari, disoccupati, inoccupati di lungo tempo, lavoratori piegati dall’usura del loro lavoro, da tanti, troppo morti nei cantieri…) e di dire “no” ad altrettanti provvedimenti in difesa del profitto e dei grandi capitali. Entrare a far parte del governo è escludere questa “modalità di desistenza”. Entrare a far parte del governo è, torno a ripeterlo, porre fine all’esperienza breve de “La Sinistra” e dichiararla quindi finita, ennesimamente per un richiamo delle sirene del governismo, più forti di quelle dei valori dell’uguaglianza sociale e civile che possono costituire ancora la base per il rinnovamento del movimento comunista tanto quanto del progressismo più generico di una Italia così tanto in balia del destino (dei mercati).