Le sentenze della magistratura sono influenzate dal clima politico e sociale. Per fare a pezzi il Jobs Act serve cambiare i rapporti di forza fra le classi
Scriviamo nei giorni della crisi di Governo, una crisi dagli effetti ancora ignoti. Tralasciando i ragionamenti sul futuro esecutivo o sulle eventuali elezioni anticipate, proviamo a capire qualcosa di una recente sentenza del Tribunale di Milano, quella che, a detta della stampa, avrebbe fatto a pezzi il Jobs Act. Ma prima di addentrarci nell’argomento urge una piccola precisazione sul nesso tra attività istituzionale e attacchi materiali alle condizioni dei lavoratori, ai loro salari e più genericamente ai diritti sociali.
Per anni è stato detto che la presenza in Parlamento era un obiettivo fuorviante, frutto di una contagiosa cecità contro la quale occorrerebbe rilanciare le lotte e il conflitto. Una vera e propria semplificazione che sicuramente ha forti radici nella indecorosa presenza in Parlamento della sinistra, soprattutto quella più radicale. La crisi di queste ore, con LeU disposta a sostenere qualsivoglia governo senza la Lega e a prescindere dal programma, induce ad ammettere che in fondo sia sempre valida la massima andreottiana del logoramento quale prerogativa dei soli esclusi dal potere.
Gli orientamenti della Magistratura risentono da sempre del clima politico e sociale, le sentenze favorevoli ai lavoratori sono arrivate quasi sempre nei momenti in cui il conflitto tra capitale e lavoro vedeva la classe lavoratrice in posizione di forza.
Non esiste un diritto astratto e super partes. Se nella società domina il liberismo e la supremazia del mercato sugli interessi collettivi siamo certi che molte sentenze non di discosteranno dai ‘sani’ principi del vincitore. Non a caso oggi nessuno parla più di indirizzo a fini sociali della proprietà e dell’impresa o di controllo dell’economia, anzi la riscrittura della Costituzione (che metterebbe da parte destra e sinistra) parte proprio dalla cancellazione delle parti più avanzate della Carta.
Ma la sostanza del ragionamento da noi sviluppato è ben altra: se un Parlamento emana leggi contro i lavoratori, sarà difficile per anni vincere le cause intentate dai lavoratori stessi; se fanno giurisprudenza sentenze padronali, molti giudici seguiranno i medesimi orientamenti.
Basterebbe questa considerazione per capire che la presenza di parlamentari schierati su posizioni di classe non sarebbe inutile ma necessaria. Nel migliore dei casi, invece, i parlamentari oggi (ma parliamo di una infima minoranza) risultano schierati, anzi appiattiti, sulle posizioni della Cgil, la stessa il cui leader Landini è disposto a sostenere un esecutivo a guida Conte.
E veniamo all’argomento oggetto dell’articolo. Il Tribunale di Milano rinvia alla Corte di Giustizia Ue quella parte del Jobs act che esclude per alcuni lavoratori la reintegra, individuando una discriminazione in seno alla forza-lavoro per stabilire una sorta di variabile del diritto: chi è stato assunto dopo il 31 Marzo 2015, ossia dopo l’approvazione del Jobs act, non avrebbe diritto alla reintegra nel posto di lavoro (per altro già compromessa dalla riforma dell’articolo 18 targata Monti-Fornero) ma solo a un risarcimento economico.
La causa, intentata dalla Cgil, reclama che non sia la data di assunzione discriminatoria per far valere un diritto oppure un altro. Si menziona la Carta dei diritti della Ue che stabilisce, all’art 20, l’uguaglianza di tutte le persone davanti alla legge, ragione per cui un trattamento diversificato è stato giudicato improprio. La data di assunzione non può essere dirimente per stabilire dei diritti. Ma potremmo anche ragionare in termini restrittivi ossia potrebbe essere sostenuto che, in un momento di crisi della Ue e della sua economia, la reintegra è giudicata sbagliata e sarebbe opportuno favorire invece il mero risarcimento economico. Non è un’ipotesi fantascientifica visto che la Corte dell’Ue è sempre ben disposta a tutelare i diritti borghesi e la “libera concorrenza”, ma meno propensa a farlo per i diritti sociali.
Non basta che un diritto formale sia uguale per tutti perché possa essere soddisfatto il diritto sostanziale, cioè la tutela contro i licenziamenti. Non sarebbe un buon diritto un’eventuale scelta per il risarcimento al posto della reintegra, ripristinando un uguale trattamento al ribasso, a scapito dei lavoratori tutelati.
La sentenza è contraddittoria e non entra nel merito della distruzione di tutele individuali e collettive a salvaguardia del più debole (il licenziato appunto) ma si sofferma solo sulla natura divisoria di un diritto, quello della reintegra, che vale per alcuni e non per altri.
Quindi dichiarare che è stato fatto a pezzi il Jobs act mi pare un tantino eccessivo. Chi esulta per questa sentenza o non l’ha letta bene o non capisce le contraddizioni della stessa, peggio ancora non vuole intravedere una logica del diritto sempre più astratta e lontana dagli interessi reali, dalla salvaguardia delle classi sociali più deboli.
Forse da qui dovremmo partire per un ragionamento serio e costruttivo.
31/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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