E’ il 31 gennaio 1901, al Teatro d’Arte di Mosca – diretto da Konstantin Stanislavskij e Vladimir Nemirovič-Dančenko – viene rappresentato il dramma di Anton Čechov Tre sorelle: comincia, non solo cronologicamente, il Novecento.
Quella sera la reazione del pubblico è piuttosto tiepida: gli interpreti sul palco parlano, parlano, parlano, ma non succede mai nulla. Non è affatto così. Succede di tutto in quella complicata storia familiare: matrimoni, realmente celebrati o solo sognati, storie d’amore, più o meno lecite, perfino un incendio e un duello. Alla fine del dramma nessun personaggio sarà come lo abbiamo conosciuto all’inizio: tutti in qualche modo sono cambiati. Ma nessuno di loro cambia come avrebbe voluto, non succede nulla di quello che i personaggi sperano accada.
Non solo ogni loro speranza – e si sa che le speranze si possono facilmente trasformare in illusioni – ma anche ogni loro sforzo, ogni loro più serio proposito, viene vanificato. Čechov sembra dire agli spettatori che non c’è nulla da fare, che ogni loro azione è destinata a perdersi nel flusso della vita. Certamente non è il miglior augurio che si possa fare a una società carica di speranze per il secolo che sta per nascere. Sono gli anni in cui nascono la radio e il cinema, in cui i fratelli Wright sperimentano le loro macchine volanti, in cui si fanno nuove e straordinarie scoperte scientifiche. E molte di queste saranno messe in pratica nel grande conflitto che sta per scoppiare. Sembra che non possano esserci limiti al progresso, eppure questo quarantenne scrittore russo racconta questa terribile storia in cui nessuno riesce a essere felice, in cui nessuno riesce a realizzare i propri sogni. Come se Čechov voglia dirci cosa sarebbe successo nel secolo che stava per cominciare.
Irina non riesce a tornare a Mosca. Masha non riesce a stare con Vershinin. Olga non riesce a non diventare direttrice di collegio. Andrej non riesce a diventare professore dell’università di Mosca. Il barone non riesce a diventare un borghese. Solyony non riesce a sposare Irina. Vershinin non riesce a sfuggire alla prigionia della propria famiglia. Čebutykin non riesce a essere un uomo senza preoccupazioni.
Solo la “cattiva” Natasha riesce nel proprio scopo: diventa la rispettabile sposa di Andrej, che pure tradisce in maniera piuttosto plateale, e soprattutto diventa la padrona incontrastata di quella piccola proprietà. Al pubblico non piace vedere i cattivi che vincono e i buoni che perdono, eppure Čechov dice che nel secolo nuovo succederà proprio così, esattamente come succedeva nel vecchio. Nel dramma i personaggi filosofeggiano spesso sui tempi nuovi, immaginando chissà che progressi, forse addirittura una nuova età dell’oro. Čechov sorride di queste illusioni. Il Novecento sarà il secolo di Natasha.
L’unica davvero felice, inconsapevolmente felice, alla fine del dramma è la vecchia balia Anfisa, che, a ottantuno anni, può finalmente riposare nella sua stanza del grande palazzo governativo, dove ha sede il collegio di cui Olga è diventata direttrice, potendo addirittura dormire su un “letto governativo”. Certo ha sofferto molto nel corso della sua vita, ma non ha mai sperato in nulla – non se l’è mai potuto permettere – e ora quell’inattesa fortuna, per quanto a noi possa apparire modesta, le sembra una specie di dono del cielo.
Solo Kulygin a suo modo è un uomo felice, anche se sa che sua moglie Masha non lo ama e l’ha tradito con Vershinin: lui vuol bene a Masha, è l’unico nella storia che è riuscito a sposare la donna a cui vuol bene, sa che è un fortuna e accetta anche che Masha ami un altro. Alla fine è lo “sciocco” Kulygin – quello che gli altri prendono in giro perché si è tagliato i baffi da quando se li è tagliati anche il proprio direttore – ad avere capito l’amara verità che Čechov dimostra con graffiante realismo. Le nostre speranze sono sempre illusioni: allora è meglio smettere di sperare e accettare quel poco che la vita ci offre.

p.s. Se fossi mai riuscito a farvi avere la voglia di vedere Tre sorelle, questa è una bella edizione, di quando la Rai faceva la Rai. 

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: