La natura del Conte due “Non sarà un governo né di sinistra né di destra. Noi non siamo né di sinistra né di destra. Sarà un governo per fare cose.“. Vi ricordate “Ecce Bombo” di Nanni Moretti? Per l’appunto, le frasi di Di Maio mi hanno fatto venire in mente la ragazza che, alle obiezioni sul “come vive”, risponde con tante alternative rispetto ad avere un lavoro, all’essere irregimentata nel sistema: “Esco, faccio cose, vedo ggente (con due gi)…“. Preso atto che ognuno fotte il sistema capitalistico un po’ come vuole, la differenza fra la ragazza di “Ecce Bombo” e i grillini è un po’ questa: loro fuori dal sistema proprio non ci vogliono stare: sul non essere di destra vi sarebbe molto su cui discutere; sul non essere di sinistra invece se ne può convenire perché, pur avendo sposato a suo tempo alcune battaglie storiche della sinistra comunista ed ambientalista, la loro organicità ai princìpi economici e anche (anti)etici su cui si regge il capitalismo non è in discussione. Quindi il Movimento 5 Stelle è semmai un complesso mostro politico, quanto meno un mitologico Giano Bifronte che ora guarda a destra quando il vento della percezione popolare è spinto da soffioni di Eolo che spingono all’odio nei confronti delle differenze, dei rom, dei migranti; e che guarda un po’ a sinistra se cambia appunto l’aria che tira. L’aria è cambiata, per un curioso autoaffondamento di Salvini nella posizione di governo che aveva assunto con il contratto stabilito un anno fa, e così siamo alla vigilia della proclamazione e del giuramento di un governo che viene definito “giallo-rosso” ma che, se i colori politici ancora valgono qualcosa, davvero di “rosso“, quindi di comunista e di socialista ha niente. Leggendo le dichiarazioni di Zingaretti e le sintesi programmatiche pubblicate qua e là su Internet e sui quotidiani nazionali, si evince che l’esecutivo guidato da Conte avrà come bussola una maggiore “flessibilità” tanto nell’interpretazione economica di una politica di gestione dei conti pubblici (la famosa “spending review“) quanto nell’impostazione delle linee guida sul lavoro e sul rapporto tra bisogni dei ceti proletari e mediamente sopravviventi nel presente stato di cose e gli indici economici. Lo spread ha iniziato a calare vistosamente, segno che i mercati hanno fiducia nell’esecutivo nascente e, pertanto, non lo percepiscono come un pericolo per la stabilità dei loro affari, per la tutela dei loro profitti e di tutti quei privilegi di classe cui sono legati strettamente e che non vedono minacciati dal patto tra PD e Cinquestelle. Un governo che ottiene questi applausi borsistici e bancari è già di per sé un governo che non può soddisfare i bisogni dei precari e quelli dei banchieri, le necessità dei lavoratori e i lussi della grande finanza. Sarà un governo molto simile a quelli che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni: da Letta a Renzi, da Monti fino al Conte uno, con la sola differenza (certamente importante) che formalmente rispetterà il galateo istituzionale e proverà a dare legittimazione umana ai diritti civili di ogni persona, contestualizzandoli però sempre e soltanto dentro il pieno assolvimento della tutela delle esigenze del mercato. Una domanda su “La Sinistra” A questo punto viene di conseguenza una domanda molto banale, semplice, diretta: visto che pochi mesi fa s’era raccogliticciamente formata una lista chiamata “La Sinistra“, formata da Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, L’Altra Europa con Tsipras, Partito del Sud, Convergenza socialista ed esternamente sostenuta anche da Sinistra anticapitalista; visto altresì che al momento lo stato dell’arte nella formazione e nel sostegno al governo PD – Cinquestelle sarebbe questo: i gruppi parlamentari di “Liberi e Uguali“, di cui Sinistra Italiana fa parte, sosterebbero il governo nascente addirittura con una partecipazione ministeriale diretta; visto che invece la direzione nazionale di Rifondazione Comunista ha votato il posizionamento del Partito al di fuori del perimetro di sostegno (in questo caso extraparlamentare) al Conte due, la domanda delle domande è: ma “La Sinistra” che fine fa?“. Probabilmente la domanda è già superata dai fatti stessi: se non è stato fatto anche un minimo sforzo per provare a tracciare una linea unitaria, quanto meno coincidente su alcuni punti che potesse essere portata all’attenzione delle iscritte e degli iscritti e di quelle poche centinaia di migliaia di elettori ed elettrici che alle Europee hanno barrato il simbolo de “La Sinistra“, è evidente che non si considerava l’esperienza degna di continuazione e la si è lasciata morire di consunzione, di una inedia politica molto facile da mettere in pratica vista l’inesistenza di una qualunque forma organizzativa che reggesse all’urto estivo della crisi di governo. Non credo che si tratti ormai di una questione, sia pure molto importante, di volontà: dare vita ad una formazione politica, seppure debole, insufficiente agli scopi e tutta da inventare, è un atto che presuppone una serietà quanto meno di intenti e una concretezza nella volontà. Mi pare che di serietà ve ne sia stata molto poca e che di volontà se ne sia riscontrata ancora meno. Così ci ritroviamo ancora una volta in mare aperto, anzi in pieno deserto in una traversata che si preannuncia priva di punti di riferimento e quindi dovremmo essere pronti, noi ultimi tra gli ultimi che restano a farsi queste domande a ricominciare daccapo, come scriveva Gramsci, convincendoci del fatto che i processi attuali sono e diventano storici proprio nel loro fluire nel tempo e che nulla è immutabile, ma che dialetticamente tutto si contorce, si avviluppa e muta in un costante e sempre più articolato cambiamento che riguarda interazioni continentali, globali e non solo relative alla nostra piccola Italia. Ora basta Non possiamo continuare a cullarci nell’illusione di un recupero di forze sociali in seno ad esistenti e moribonde forze politiche in un Paese dove la domanda di sinistra è pressoché assente perché, lo ripeto ennesimamente, la domanda di uguaglianza sociale è assente e lo sarebbe anche quella di uguaglianza civile se avesse prevalso il “modello Salvini“. Non possiamo diventare degli “attendisti“, coloro che si siedono sulla riva del fiume e aspettano che passi tra i flutti il cadavere dell’avversario per potersi rimettere all’opera. Non possiamo nemmeno rassegnarci alla teoria della “fine della storia“, della vittoria del capitalismo in modo imperituro: sappiamo che non è vero perché non è possibile, visto che si tratta di un fenomeno umano e che tutti i fenomeni umani, creazione quindi di masse di persone, hanno avuto un inizio ed avranno una fine. Il compito nostro, dei comunisti, era quello – e rimane tale – di accelerare i tempi, di cogliere gli attimi fuggenti, di aprire contraddizioni nel sistema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nel regime delle merci e del profitto e scardinarlo dal basso per costruire le condizioni atte allo sviluppo pieno della persona in totale armonia con l’ambiente in cui si trova a vivere, nel pieno rispetto tanto dell’ambiente quanto degli altri esseri viventi. Invece, dopo il fallimento delle devianze storico-politiche dei regimi assoluti del “socialismo reale” (ma non realizzato), ha prevalso una ondata socialdemocratica che si è lasciata prendere dal governismo come unico elemento di finalità politica in una condizione di indisponibilità alla trasformazione della società in cambio della disponibilità all’assunzione del potere. La socialdemocrazia è partita da un timido riformismo ed è divenuta il più crudele dei servitori del moderno liberismo, unitamente a quel residuo di cattolicesimo sociale ben presto venuto meno dentro la simbiotica anomalia tutta italiana chiamata “Partito democratico“. In fondo di analisi in merito ne abbiamo svolte e scritte tante: abbiamo discusso in molti congressi, assemblee e abbiamo usato queste moderne agorà telematiche, i “social“, per mortificare proprio una seria argomentazione delle differenze di posizione che ci sono sempre state e che hanno, al di là della preventiva negatività che mostravano in virtù della divisione che si portavano appresso, comunque rappresentato una ricchezza culturale che oggi tende a svanire. I nostri partiti sono formati nella maggior parte dei casi da compagne e da compagni che sarebbe più giusto definire solo “cittadini” o “persone“, togliendo loro quell’appellativo che voleva dire “dividere il pane“, essere parte di una comunità consapevole degli obiettivi politici e sociali che si pone. La maggior parte delle nostre compagne e dei nostri compagni non ha più ben chiaro nemmeno lo scopo del Partito: certi non sanno nemmeno come funzioni il Partito cui sono iscritti. Questo significa che il primo lavoro che dobbiamo impegnarci a fare è ridare alla comunità resistente dei comunisti, degli anticapitalisti e degli antiliberisti una nuova concezione della funzione politica che possono e devono rappresentare tanto singolarmente quanto nell’unità costituente del Partito che si rinnova di congresso in congresso. Questa coscienza politica oggi è progressivamente venuta meno e ci troviamo innanzi a ceti dirigenziali inadeguati al loro compito che vivacchiano su documenti vuoti, privi di uno slancio anche emotivo, ripetitivi da anni e anni, intrisi di retroguardia antistorica, incapaci di organizzare anche ciò che rimane di Rifondazione Comunista o di altre formazioni della sinistra. Ora basta. E’ venuto il momento di non perseverare nell’accanimento terapeutico, di lasciare andare ciò che rimane di una grande storia di recupero dei valori del comunismo e dell’uguaglianza, della giustizia sociale e della socialità come fondamento di una nuova epoca umana, ambientale, animale. L’ultima missione di Rifondazione Comunista non può che essere quella di aprirsi ad una nuova storia del comunismo, inteso proprio – e a maggior ragione oggi – come un “movimento” che unisca recupero della coscienza critica (quindi una rialfabetizzazione necessaria ad una nuova cultura del e per il comunismo) a riposizionamento politico in una società che ha smarrito tutto questo e che non può ritrovarlo nella sbiadita immagine di un passato ormai privo di significato nel presente. Se vogliamo ancora vivere e rivivere come comuniste e comunisti, dobbiamo fare un salto di qualità doloroso e lasciare andare Rifondazione Comunista per affrontare la sfida di un presente cui oggi non siamo in grado di guardare se non con vecchi schemi incomprensibili prima di tutto ai moderni proletari. Siamo e rimaniamo comuniste e comunisti. Non ce l’ha ordinato il medico. Ce lo impone la storia di una attualità dei tempi che ci dice che la lotta di classe esiste e che non viene meno solo perché gli sfruttati non hanno coscienza di essere una massa, quei “milioni del cui lavoro vive l’intera società“, come bene si esprimeva Rosa Luxemburg. Ma gli strumenti politici che abbiamo oggi sono inadeguati ad una ripartenza perché prima di tutto ad essere inadeguati siamo noi stessi, visto che il Partito non è qualcosa relegabile nella metafisica ma è tangibilità umana, formazione di scienza, coscienza e volontà attraverso la passione di voler mutare il mondo in un luogo di vita e non di sopravvivenza. Creare un “movimento” (tutto il contrario di ciò che si potrebbe pensare pronunciando la parola nel contesto politico italiano di governo) che si predisponga a tornare ad essere un vero Partito. Questo il compito di oggi. Un movimento comunista che sbugiardi tutta la presunta “modernità” delle socialdemocrazie che si dicono pronte a sostenere un governo liberista pur chiamato “giallo-rosso“. Un movimento comunista che sia lontano da qualunque tentazione esclusivamente governista al fine di contenere lo strapotere delle destre ma che partecipi però al contempo alla lotta per fermare la deriva disumana del sovranismo neofascista moderno. Un movimento che, personalmente, vedo aperto, libero e libertario. Un grande luogo politico, sociale e civile di donne e uomini, di ragazze e ragazzi desiderosi di conoscere, sapere, studiare e quindi nuovamente consapevoli del ruolo che possono, che devono avere nella società delle ingiustizie che nessun governo “giallo-rosso” potrà mai migliorare.