Cosa c’è dietro lo sgombero annunciato della casa delle donne. Una lunga storia di appalti sospetti, debiti, truffe ai contribuenti, disservizi di cui si è resa protagonista negli ultimi dieci anni l’azienda di trasporti pubblici dei romani, proprietaria dell’immobile nella zona di Cinecittà in via Lucio Sestio: un ex deposito abbandonato per tredici anni, poi occupato e divenuto una casa vera e propria per donne che hanno denunciato violenze, ma anche uno spazio di comunità dove si pratica cooperazione produttiva e si definiscono i contorni di un nuovo welfare
L’ultimo bilancio consolidato, reale, di Atac, l’azienda pubblica dei trasporti controllata dal Comune di Roma, risale alla fine del 2017 e racconta di un buco di bilancio che in realtà è una voragine, pari a circa 1,5 miliardi di euro. A un passo dal suo fallimento, per scongiurarlo, perlomeno temporaneamente, la sindaca Virginia Raggi aveva trovato la soluzione. Occultarlo a norma di legge, “congelarlo”. Il concordato preventivo in continuità, infatti, che è la strada giuridica scelta dall’amministrazione, comporta la presentazione di un piano di salvataggio al tribunale fallimentare, il quale deve verificare se il progetto sia fattibile e se possa portare al rilancio della detta società. In sostanza, attraverso il concordato si chiede al giudice fallimentare l’autorizzazione a mantenere la continuità del servizio. Previa l’autorizzazione di un soggetto terzo che abbia la competenza giuridica ed economica necessaria nel certificare che sussistano i flussi finanziari adeguati a sostenere l’attività. Nel caso di specie, dunque, occorreva attestare che Atac avesse ancora i soldi per pagare gli stipendi di una decina di migliaia di dipendenti, per la manutenzione dei mezzi ed eventualmente per acquistarne di nuovi. In altre parole: per poter garantire la continuità del servizio di trasporto pubblico erogato. Nel luglio del 2018 il Tribunale fallimentare di Roma ha ammesso la società alla procedura di concordato preventivo, approvato anche dall’assemblea dei creditori di Atac. In un primo momento, però, i pubblici ministeri delegati agli affari civili della Procura di Roma, Stefano Fava e Giorgio Orano, avevano mosso una serie di contestazioni riguardo sia la mancanza di «sufficienti garanzie sulla fattibilità del piano» che in merito ai «costi di svolgimento della procedura»; questi ultimi erano stimati in oltre dieci milioni di euro soltanto per i compensi dei commissari giudiziali, così giudicati dai pm: «una previsione sproporzionata rispetto all’oggetto dell’incarico conferito e lesiva degli interessi dei creditori». Era però anche la stessa reale incisività delle misure previste per recuperare la redditività dell’azienda che era messa in discussione dai giudici. L’ostacolo giudiziario era stato superato, poi, grazie a un artificio della maggioranza penta stellata in Campidoglio che aveva approvato in aula un provvedimento che, di fatto, spostava al 2036 i pagamenti vantati dal Comune nei confronti di Atac, dietro tutti i creditori, dietro i privati, le banche. Ciò avveniva nonostante i dubbi dell’Autorità Anticorruzione sul movimento di soldi -55 milioni di euro-versati alle banche il giorno prima dell’avvio del concordato. Con la stessa Anac che si era “interessata” alla procedura di proroga dell’affidamento del servizio di trasporto pubblico all’ Atac fino al 3 dicembre 2021. In tutti i casi è una storia che viene da lontano quella della svendita del patrimonio dell’azienda romana di trasporti che affonda le sue radici durante l’era Rutelli-Veltroni, periodo in cui si decide, già allora, di affidare il risanamento di Atac alla vendita diretta dei suoi immobili. Considerandoli come i gioielli di famiglia da cedere per rimpinguare le casse. Come se ciò bastasse, senza minimamente intaccare, invece, un modello economico e di gestione che negli anni è risultato essere disastroso. Perché a questa visione mercanteggiante della cosa pubblica, si aggiungono, poi, i come e i perché della creazione di quel vortice di debiti, causati in gran parte dalla “gestione politica dell’azienda”. Come hanno raccontato negli anni passati anche alcune inchieste giornalistiche «Esisteva un sistema, un tram sul quale in tanti sono saliti e scesi arricchendosi. Manager, prima di tutto, e poi la politica. I benefici di un sistema che può drenare fino a 70 milioni di euro l’anno, che vanno oltre le istituzioni locali, e toccano anche alcuni parlamentari». Un tavolo per spartirsi una ghiotta torta, in cui a Roma si sono accomodati tutti, centrodestra e centrosinistra. Come ha rivelato la Guardia di Finanza che ha indagato a lungo, ad esempio, sul sistema della “falsa bigliettazione Atac” scoprendo nel 2013 una vera e propria contabilità parallela. Gli stessi giudici della procura di Piazzale Clodio si sono trovati ad indagare, più volte, sugli affidamenti in via diretta per la manutenzione dei mezzi, sui subappalti per le forniture che hanno visto i prezzi delle fatture aumentati anche di cinque volte rispetto ai valori di mercato dei beni forniti, e sugli appalti gonfiati, quelli delle pulizie «con maggiorazioni anche del 30% rispetto alle gare precedenti per l’offerta dello stesso servizio». Il concordato, quindi, è soltanto la pietra tombale di un progetto disastroso di governo della cosa pubblica. Che in realtà si rileverà come una pezza peggiore del buco, perché le cifre di quella voragine di bilancio prima o poi busseranno alle porte dei romani. Al civico 10 di via Lucio Sestio, nel quartiere di Cinecittà, il 18 luglio scorso hanno bussato due delle tre liquidatrici del patrimonio Atac, le quali hanno effettuato un sopralluogo presso la Casa delle Donne Lucha Y Siesta, per stimare il bene e comunicare alle donne presenti che «entro il 24 agosto il bene sarà stimato e venduto poi entro un anno» Di più: il 15 settembre dovrebbe avvenire lo sgombero del villino che un tempo era la sede della sottostazione Cecafumo, con cui venivano assicurati i movimenti del tram che da Roma portava alla zona dei castelli romani. Lo stabile dove oggi ha sede la casa delle donne, Lucha y Siesta, è infatti occupato da quasi dodici anni (dopo che l’Atac l’aveva abbandonato lasciandolo marcire per più di dieci anni) e nel frattempo, poi, le donne l’avevano riqualificato; rendendolo, in seguito, un luogo di riferimento «per il territorio, per i servizi sociali municipali, per le stesse forze dell’ordine, per tutte quelle donne che hanno trovato risposte adeguate ed efficaci di fronte alla violenza maschile», racconta Egilda, una delle attiviste impegnate da più tempo: «Qui dentro abbiamo messo a disposizione 15 posti, il 60% dei posti di tutto il territorio comunale». E ancora: «un’esperienza come Lucha y Siesta che dura da dodici anni non può essere ridotta solo a una mera questione di posti. Questo è un luogo dove si portano avanti progetti culturali, è uno spazio di studio e sperimentazione, in cui, attraverso un lavoro intenso che viene portato avanti da chi gestisce lo spazio, che è anche soprattutto politico, le donne ospitate riescono a raggiungere l’autonomia dopo storie di vita devastanti». Continua Egilda: «Lucha y Siesta è molto di più di un centro antiviolenza. È un luogo dove è possibile ricevere sostegno legale, psicologico, sanitario. È uno spazio fisico dove esiste una vera e propria comunità, dove tutte contribuisco alla gestione del luogo senza separazione tra le donne che ci vivono e quelle che ci lavorano». E conclude: «Di contro abbiamo assistito in questi anni a una vera e propria sottovalutazione dell’importanza di questo spazio. Perché è mancata la volontà politica di salvare questo bene sociale. Perché nonostante i tentativi di interlocuzione con il Comune, la Regione, il Municipio, i tavoli sono andati spesso deserti». E ora, dunque, il destino della casa delle donne dove vengono ospitate le donne che hanno denunciato violenze, ma anche quel luogo di comunità dove si pratica cooperazione produttiva e si definiscono i contorni di un nuovo welfare, è appeso al volere di una giudice fallimentare, a cui spetta la responsabilità di cancellare una vera e propria rete di solidarietà, che, invece, nessun debito, né concordato, né artificio giuridico potrà legittimare, rifletto così mentre esco dal cancello verde dove ha sede Lucha y Siesta, un’oasi della solidarietà in questa Capitale del rancore che è diventata Roma. Lì, infatti, all’interno di questo villino roseggiante che assomiglia a un vecchio casale di campagna, circondato dalla modernità dei palazzoni novecenteschi di Cinecittà, c’è un luogo dove si respira un’altra idea di Città che bisogna proteggere, con ogni mezzo necessario.