Cosa succederà adesso a Hong Kong? La patata bollente passa nelle mani dei manifestanti. Già, perché il governo locale, sicuramente coadiuvato a distanza dalla Cina, ha fatto la sua mossa ritirando completamente la legge sull’estradizione tanto criticata dai dimostranti. Mostrando pazienza e addirittura diplomazia, Pechino ha compiuto un passo che quasi nessuno credeva fosse in grado di fare. C’era chi ipotizzava una possibile Tienanmen due, chi da un momento all’altro ipotizzava il pugno duro dei militari cinesi e chi pensava che il Dragone non intendesse assolutamente scendere a patti con gli hongkonghesi. Invece, contro ogni pronostico, la Cina ha accolto una delle cinque richieste della piazza. La più innocua probabilmente, che tuttavia basta a relegare le autorità centrali in posizione di vantaggio. Già, perché adesso la Cina non vuole sentire storie e non intende più accettare disordini di alcun tipo.
Lo scacco matto di Carrie Lam
Il problema è che i manifestanti, partiti scagliandosi contro la legge ritirata da Pechino, hanno nel frattempo aggiunto altre rivendicazioni alla loro battaglia. Paradossalmente la richiesta esaudita dalla Cina è quella finita in secondo piano, nascosta dalle altre ben più impellenti. Gli attivisti chiedono la liberazione dei compagni arrestati durante le violenze, l’apertura di un’indagine contro i comportamenti censurabili tenuti dalla polizia nel bel mezzo dei disordini, il ritiro di Carrie Lam e, dulcis in fundo, il suffragio universale. Alla fine una parte di Hong Kong ha usato il pretesto dell’estradizione per far capire alla Cina di non voler essere soggiogata al suo sistema economico e politico. Ora, dopo settimane di proteste e oltre 1000 manifestanti arrestati, Lam ha annunciato il ritiro della controversa legge, tagliando le gambe al movimento pro democrazia.
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